Per il 18 giugno è previsto uno stato di agitazione nazionale per il mancato rinnovo del contratto della sanità privata. La vertenza riguarda in tutto circa 70 mila lavoratori, già fortemente penalizzati rispetto a chi lavora nel pubblico
Alessandro, infermiere, lavora da 11 anni all’ospedale San Raffaele. Venerdì 28 maggio era in piazza Città della Lombardia, davanti alla sede della Regione, insieme a 200 colleghi e al sindacato Usb, per protestare contro la scelta dell’ospedale milanese di cambiare la posizione contrattuale dei propri lavoratori sanitari da pubblica a privata. Il contratto nazionale della sanità privata disciplina in tutta Italia il rapporto di lavoro di chi è impiegato nelle case di cura private e nei centri di riabilitazione, aderenti ad Aiop (Associazione italiana ospedalità privata, di cui fa parte San Raffaele) e Aris (Associazione Religiosa Istituti Socio-Sanitari). Il contratto Aiop non viene rinnovato dal 2007, quello Aris dal 2012. Entrambi prevedono molte differenze rispetto alla situazione di chi è assunto nella sanità pubblica.
“Per una questione politica ed economica l’ospedale San Raffaele ha deciso di cambiare il contratto. Il problema di questo contratto? Dal punto di vista salariale non ci sono scatti di fascia, cioè poche prospettive di avanzamento professionale. Quello che uno prende adesso prenderà sempre,” spiega Alessandro. “La situazione del San Raffaele è locale ma le problematiche in essere sono allargabili a tutti i lavoratori della sanità nazionale. Da un punto di vista contrattuale sono lavoratori di serie B. Questo non vuol dire che i lavoratori della sanità pubblica siano dei privilegiati, ma non c’è uniformità di trattamenti economici e normativi,” spiega Nico Vox, sindacalista Usb.
Con 167 medici morti sul lavoro dall’inizio dell’epidemia e circa 3500 operatori sanitari delle Rsa contagiati nella sola Lombardia, la decisione dell’istituto milanese arriva con un tempismo infelice e in un periodo particolarmente difficile per la sanità italiana. “La turnazione è stata pesante. Durante l’emergenza hanno spostato varie persone in vari reparti. Sono state fatte nuove assunzioni con il nuovo contratto ed era difficile lavorare con nuovi assunti in una situazione delicata. Anche per questo motivo è stato stressante. I reparti ora sono sempre tirati al limite per numero di personale,” racconta l’infermiere, che ha lavorato nel reparto malattie infettive durante l’emergenza.
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Per il personale del San Raffaele il passaggio al contratto Aiop è una situazione inedita. Per la maggior parte dei lavoratori della sanità privata, invece, la situazione di svantaggio contrattuale rispetto al contratto pubblico non è una novità. “Noi crediamo che un infermiere, un oss, un medico nella sanità privata e pubblica debbano avere lo stesso riconoscimento. Si deve riconoscere la professionalità. Dal pubblico al privato la differenza sugli stipendi è tra i 300 e i 400 euro. I medici hanno anche 900 euro di differenza,” spiega Patrizia Sturini, segretaria Funzione Pubblica Cgil della provincia di Pavia. Le differenze tra i contratti non si fermano alla busta paga e anzi si estendono all’impossibilità di ottenere permessi studio, alla riduzione dei congedi annuali, fino alla retribuzione inferiore dei congedi di maternità per le lavoratrici del comparto privato. La situazione più delicata è quella dei lavoratori assunti con contratto Aris Rsa: “In tutte le strutture che applicano Aris Rsa c’è una situazione di particolare svantaggio. Con 38 ore lavorate al costo di 36 ore e indennità non riconosciute,” spiega Sturini.
Il settore pubblico funziona in modo differente perché non ha né azionisti né profitti da realizzare: “Il pubblico è pagato con i fondi: c’è il fondo produttività, ad esempio, che nel privato non c’è. Nel privato non ci sono le risorse aggiuntive regionali né i fondi perché il privato riconosce la prestazione e non la professionalità,” spiega la sindacalista. Dopo il fallimento dell’ultimo tentativo di conciliazione dell’11 maggio con Aiop e Aris per il rinnovo del contratto, i sindacati Cgil, Cisl e Uil hanno indetto lo sciopero nazionale dei lavoratori della sanità privata. L’adeguamento del contratto del personale sanitario privato è una questione sul tavolo di aziende, governo e sindacati da molto tempo. Lo stato di agitazione è previsto per il 18 giugno, ma al momento non sono previste proteste in piazza a causa delle norme anti contagio. “Non si potrà scendere in piazza. I datori di lavoro scaricano le colpe sui tagli alla sanità. Ma ne va di mezzo sempre il costo del lavoro. I lavoratori non possono pagare lo scotto di questi tagli,” afferma la sindacalista.
Il settore pubblico funziona in modo differente perché non ha né azionisti né profitti da realizzare
Secondo il bilancio sociale Aiop 2018, sul territorio nazionale sono 518 le strutture rappresentate dall’associazione per 60 mila posti letto, di cui 52 mila accreditati con il Ssn. Secondo il rapporto, le strutture sanitarie di diritto privato garantiscono il 28,4% delle giornate di degenza e circa il 26,5% delle prestazioni, a fronte di una spesa pari al 13,5% della spesa sanitaria italiana. Sono invece 70 mila i lavoratori della sanità privata interessati dalla trattativa sindacale per lo sblocco del contratto nazionale. “Se negli anni Settanta la sanità privata aveva un livello occupazionale del 10 o 15%, nella città di Milano siamo al 50%. Il paradosso è che oggi c’è più personale nelle strutture private,” spiega Nico Vox.
Il blocco della contrattazione nazionale si inserisce in una situazione emergenziale che ha investito anche il settore privato. Tutte le cliniche private, come il San Raffaele, accreditate presso il Servizio Sanitario Nazionale, hanno subito cambiamenti, con conseguenze sul budget annuale. Interi reparti per prestazioni ambulatoriali e chirurgiche sono stati convertiti per il trattamento di pazienti Covid, con ulteriori costi di nuove assunzioni e adeguamenti strutturali.
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“Tutte le strutture private devono riservare un totale del 30% dei posti letto a scopo precauzionale per il coronavirus. Le case di cura accreditate sono state coinvolte quando la sanità pubblica non poteva più accogliere degenze in terapia intensiva. I ferristi si sono adattati per assistere i pazienti in terapia intensiva. Alcuni professionisti si sono dovuti cimentare con l’assistenza del paziente Covid, senza contare che questo non è meno rilevante del compromesso psicologico che queste persone hanno dovuto affrontare,” spiega Sturini.
Il costo della crisi del coronavirus preme sui lavoratori del sistema sanitario dal punto di vista sia salariale sia psicologico: “Il personale sanitario nella sanità pubblica come in quella privata ha operato con abnegazione in una situazione particolare. La pandemia continua ad esistere e il personale continua a operare, senza neanche la possibilità di andare in ferie,” fa notare Vox. La sindacalista della Cgil descrive una situazione simile: “C’è stato un coinvolgimento emotivo che questi lavoratori si porteranno dietro per tutta la vita. La Cgil a livello nazionale ha attivato in tutte le regioni uno sportello gratuito per tutte le figure sanitarie. Non sono state previste ferie per queste persone ma solo un contributo economico. Un altro riconoscimento sarebbe stato quello di incrementare congedi e permessi. Il problema è che così si chiuderebbe la sanità.”
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Secondo i sindacati non ci sono al momento situazioni flagranti di licenziamento ma c’è la tendenza da parte delle aziende ospedaliere a non rinnovare i contratti a tempo determinato. Si tratta di una conseguenza dello spostamento delle attività ospedaliere verso l’emergenza coronavirus, con una contrazione delle entrate derivanti da altre prestazioni. “Siamo di fronte ad aziende che non rinnovano i contratti determinati. Al 23esimo mese oggi i dipendenti vengono licenziati, prima venivano assunti a tempo indeterminato.”
La crisi occupazionale provocata dal coronavirus nel settore sanitario è misurabile attraverso la cassa integrazione, aggiunge la sindacalista Cgil: “Ho lavorato 30 anni in sanità e da 8 anni seguo la sanità pubblica e privata come sindacalista. Non è mai successo nella storia che le aziende attivassero il Fis (Fondo integrazione salariale) e mettessero le persone in cassa integrazione: per la prima volta Maugeri, Mondino, Don Gnocchi, Città di Pavia e anche le Rsa hanno richiesto questi fondi.”
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Tutte le foto dell’autrice, dal presidio del 28 maggio davanti alla sede di Regione Lombardia