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I gruppi della galassia del movimento fondato da Patrisse Cullors, Alicia Garza, e Opal Tometi hanno già cambiato il mondo, ma la loro lotta è appena cominciata

Mentre la protesta si allargava in tutti gli Stati Uniti, per la quarta notte consecutiva gli attivisti di Minneapolis sono tornati in strada a chiedere giustizia per George Floyd e per opporsi al razzismo sistemico negli Stati Uniti.

La polizia ha reagito sistematicamente con violenza: a New York, un video del giornalista Jon Campbell mostra i poliziotti assalire, colpire ripetutamente con il manganello, e sparare una sostanza spray sui contestatori; a Los Angeles gli attivisti hanno assalito un poliziotto che stava pestando un altro civile, e poi sono andati ad occupare la Route 110 letteralmente correndo in mezzo al traffico; ad Atlanta sono stati registrati gli scontri più violenti della serata: la manifestazione era iniziata pacificamente, fuori dal CNN Center della metropoli, per poi diventare violenta dopo l’intervento della polizia antisommossa; a Oakland e a San Jose la polizia ha assalito le proteste pacifiche, dando via allo scontro.

Mentre la polizia, accompagnata anche oggi dalla Guardia civile, caricava i contestatori, per le vie di Minneapolis in molti hanno cantato in coro: “Queste non sono proteste, è una rivoluzione.” Prima della pandemia, il 2019 era stato un anno di sollevazione globale, e queste negli Stati Uniti sono il primo esempio post-pandemia di una nuova generazione di proteste — completamente diverse da quelle fallimentari e senza leader dello scorso decennio, ma strettamente organizzate in gruppi d’azione che hanno proprie strutture per garantire sicurezza e impedire infiltrazioni.

Le proteste che lo scorso anno hanno agitato il Cile e Hong Kong non sono nate dal nulla. Al contrario, questa nuova forma di organizzarsi e mantenere viva la lotta nasce proprio dalla comunità afroamericana, e l’interesse mondiale per l’omicidio di Floyd, ancora prima che diventasse occasione della più grande protesta che abbia interessato gli Stati Uniti negli ultimi anni, è una testimonianza del successo senza precedenti della galassia di organizzazioni del movimento Black Lives Matter, una vera e propria rivoluzione politica che non “solo” è riuscita a riplasmare la politica statunitense, ma negli ultimi sette anni ha ottenuto risultati enormi.

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Tutto è iniziato nel luglio 2013, quando Patrisse Cullors, Alicia Garza, e Opal Tometi hanno dato via a un movimento destinato a insegnare al mondo come coordinare il dissenso nel XXI secolo: la loro piattaforma, attorno all’hashtag virale #BlackLivesMatter, ha raccolto immediatamente il malessere che nelle settimane precedenti stava ribollendo sempre di più. Oggi, l’organizzazione è divisa in quattordici gruppi locali, e si coordina con centinaia di gruppi single issue o territoriali.

Black Lives Matter funziona perché non si tratta di un movimento di protesta contro una legge, o per denunciare un crimine — nemmeno uno agghiacciante come l’omicidio di George Floyd — ma è stato fin dall’inizio un movimento dalle prospettive più ambiziose, che pretende una riorganizzazione strutturale della società.

Oggi, la richiesta più diffusa tra gli attivisti del movimento è ottenere un drastico taglio dei fondi delle polizie negli Stati Uniti, che negli ultimi decenni hanno visto il loro potere, e il loro budget, solo crescere. Ma questa, come tutte le altre, non diventerà l’unica battaglia identificante del movimento: è semplicemente quello che si sta pretendendo in questo momento, sulla strada per costruire un paese più eguale, anche con la forza, se serve. Negli anni, questo ha permesso a Black Lives Matter di non perdere di intensità, di non scomporsi di quando si arriva a una vittoria, e di lavorare lentamente per spostare la finestra di Overton, rendendo possibile lo slittamento a sinistra del Partito democratico.

Le vittorie del movimento non sono soltanto nel dibattito politico, però. A Chicago, i gruppi BYP100 e le Assata’s Daughers sono riuscite a far perdere le primarie democratiche della procuratrice distrettuale Anita Alvarez, famosa per aver scagionato poliziotti accusati di omicidio 68 volte nel corso della propria carriera, e che fino a quel momento era riuscita a scansare effettivamente qualsiasi conseguenza delle proprie azioni.

In Florida i Dream Defenders hanno fermato Angela Corey, la procuratrice generale responsabile di due grandi scandali giuridici: l’assoluzione di George Zimmerman, responsabile di aver ucciso Trayvon Martin, un giovane afroamericano di 17 anni, e la condanna a vent’anni di Marissa Alexander, una donna “colpevole” di aver sparato un colpo d’avvertimento al marito, un uomo violento, che aveva minacciato di ucciderla.

L’organizzazione di #BlackLivesMatter ha reso possibile la nascita di una intera generazione di proteste, tra cui non si può non menzionare il movimento #MeToo: tutte forme di partecipazione che iniziano online ma non si fermano all’attivismo da tastiera, attraverso una vera e propria “mobilitazione mediata” attraverso la discussione online. Anche in Italia schiere di benpensanti, come il deputato di Italia Viva Ettore Rosato, hanno criticato la deriva violenta delle proteste, ma il dato di fatto è un altro: ieri è stato finalmente arrestato l’ex poliziotto Derek Chauvin, esecutore materiale dell’omicidio. Considerato il tentato insabbiamento, e le ridicole prime dichiarazioni dell’FBI, è lecito chiedersi: si sarebbe arrivati all’arresto senza proteste?

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Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.