Nel Mediterraneo centrale non ci sono più navi di soccorso

Con il fermo della Alan Kurdi e della Aita Mari il Mediterraneo centrale resta completamente scoperto. Così, mentre la situazione in Libia è al massimo dell’instabilità, le traversate non sono mai state così pericolose.

Nel Mediterraneo centrale non ci sono più navi di soccorso

in copertina, foto via Facebook

Con il fermo della Alan Kurdi e della Aita Mari il Mediterraneo centrale resta completamente scoperto. Così, mentre la situazione in Libia è al massimo dell’instabilità, le traversate non sono mai state così pericolose

Le autorità italiane si confermano completamente incapaci a gestire la “crisi” migratoria tra l’Africa e le nostre coste, rendendo ormai legittimo domandarsi se non le si possa definire delle vere e proprie complici della strage di migranti nel Mediterraneo. Dopo la Alan Kurdi, ieri anche la nave Aita Mari è stata sottoposta a fermo amministrativo dalla guardia costiera italiana, sempre per “diverse irregolarità di natura tecnica e operativa.” La decisione di bloccare le due imbarcazioni spagnole ha un effetto preciso e drammatico: ora, infatti, non ci sono più navi di soccorso nel Mediterraneo centrale.

Questo non vuol dire che i migranti “smetteranno di arrivare:” è infatti provato che la presenza di navi di Ong non costituisce un pull factor sulle partenze dalla Libia. La mancanza di navi di soccorso rende solo più pericolose le traversate, aumentando il rischio dei naufragi e di morti in mare. Si tratta di un momento particolarmente delicato per chi sta migrando verso l’Europa, esattamente per le stesse ragioni sanitarie con cui l’Italia ha “giustificato” la stretta. L’emergenza per il nuovo coronavirus è infatti un’ulteriore causa di pericolo per i quasi 700 mila rifugiati intrappolati in Libia, dove secondo l’UNHCR il rischio un’esplosione del contagio avrebbe conseguenze “completamente catastrofiche.”

Infatti, le persone continuano ad arrivare: ieri altre 156 a bordo di un gommone stracarico sono miracolosamente arrivate a ridosso delle nostre acque territoriali, soccorse dalle motovedette italiane a due miglia da Lampedusa. C’è stato uno sbarco autonomo anche sulla spiaggia di Torre Salsa, nell’agrigentino, dove una ventina di migranti sono riusciti a far perdere le proprie tracce.

Lampedusa continua a essere in preda a una totale disorganizzazione: dopo gli ultimi trasferimenti verso Porto Empedocle, all’addiaccio sul Molo Favarolo restano circa 150 persone. Alcuni di loro sono alla terza notte di fila passata all’aperto, mentre l’idea di attrezzare una “nave hotspot” per la quarantena — che comunque risolverebbe poco o niente — è ancora arenata.

È ormai chiaro che i governi europei hanno deciso di utilizzare la situazione di emergenza sanitaria causata dal nuovo coronavirus per intensificare la loro politica inumana e repressiva verso i migranti e i naufraghi. Negli scorsi giorni sono emerse ad esempio testimonianze sui respingimenti effettuati da Malta, e su “misteriosi” sparizioni di migranti sbarcati sulle coste greche, probabilmente deportati in Turchia. Con la scusa dell’emergenza il governo italiano ha ufficialmente “chiuso i porti”, ormai un mese fa, alle navi straniere che dovessero raccogliere naufraghi fuori dalla zona SAR italiana. Un provvedimento particolarmente poco solido se si pensa alla diversa situazione del contagio tra Europa e Nordafrica, firmato anche dal ministro della Salute, Roberto Speranza.

– Leggi anche: La Grecia deporta i migranti verso la Turchia?

In mezzo al mare, il mercantile Marina entra nel suo quinto giorno di stallo senza un porto sicuro, con 78 naufraghi. La situazione a bordo è a dir poco drammatica: secondo gli avvocati dei proprietari del mercantile, l’equipaggio è rimasto senza acqua corrente e sta riciclando l’acqua degli impianti di condizionamento per lavarsi e per far funzionare i bagni — un solo litro d’acqua al giorno a persona.

Anche la situazione per chi in Italia è riuscito ad arrivarci, magari finendo vittima di un caporale, non è rosea. La maggioranza continua a litigare per trovare il giusto equilibrio tra razzismo esplicito e necessità di sfruttamento: il Movimento 5 Stelle, sostanzialmente indistinguibile dalla Lega, insiste nella propria opposizione alla regolarizzazione dei braccianti agricoli, sostenuta dalla ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova. Sfidando tutte le leggi della logica, Vito Crimi ha argomentato che “se noi concediamo uno status di regolarizzazione a chi è in Italia illegalmente, consentiamo a queste persone di continuare a svolgere lavoro nero ed essere oggetto di sfruttamento.”

Bellanova ha minacciato le dimissioni. “Questo governo deve avere coraggio. Non si possono lasciare le persone a vivere come topi nei ghetti. Lavorano già nel nostro Paese e spesso in condizioni complicatissime e al limite, meritano una possibilità e vanno regolarizzati,” spiega in un’intervista all’HuffPost. Il dibattito italiano sulle migrazioni, però, è inquinato a tal punto dalla retorica di estrema destra che la stessa ministra è costretta a mettere le mani avanti sulla durata dei permessi di soggiorno, che sarebbe solo di 6 mesi: “Non stiamo dando un permesso di soggiorno a vita ma semplicemente una possibilità.” La posizione di Bellanova, per quanto timida, si delinea come quella più avanzata: secondo le indiscrezioni, la ministra Catalfo vorrebbe permessi della durata massima di un mese. È probabile che un accordo alla fine ci sarà, anche perché la mancanza di manodopera nei campi è un problema grave anche secondo Coldiretti — ma si tratterà di un provvedimento enormemente depotenziato.

In questo momento uno stato maturo, che voglia garantire i massimi diritti possibili per tutti coloro che sono sottoposti alla sua giurisdizione o che gli si rivolgono per necessità, dovrebbe puntare a essere il più inclusivo possibile, concedendo a chi lavora e paga le tasse e sul proprio territorio accoglienza e voce in capitolo sulle scelte politiche. In questo momento invece il governo italiano, nonostante il suo teorico posizionamento nel centrosinistra, sta sfruttando una crisi — peraltro gestita in modo incerto e discutibile — per giustificare una stretta verso politiche discriminatorie, oppressive e razziste. Che ha effetti pesanti su chi è riuscito ad arrivare qui, ma che possono essere drammatici per chi sta affondando.