Un sacco di gente pensa ancora che il revenge porn sia normale
Quel gruppo su Telegram con 40 mila membri non conteneva solo revenge porn — ma non è solo una chat, o un gioco. Non è “boys will be boys,” è violenza di genere talmente introiettata nella vita di tutti i giorni da risultare normale.
tutti i volti in copertina non appartengono a persone realmente esistenti e sono generati da una rete generativa avversaria
Quel gruppo su Telegram con 40mila membri non conteneva solo revenge porn — ma non è solo una chat, o un gioco. Non è “boys will be boys,” è violenza di genere talmente introiettata nella vita di tutti i giorni da risultare normale.
Succede ormai a cadenza regolare: emerge dalle tenebre un gruppo Facebook o Telegram in cui gli utenti si scambiano foto e video di ragazze, le commentano, le chiamano troie o cagne, si dicono l’un l’altro quanto vorrebbero stuprarle — meglio se minorenni, è più divertente. Il web li scopre, si indigna. Vengono pubblicati screenshot, qualche utente su Twitter litiga con qualche altro utente (il secondo ha con tutta probabilità la bandierina italiana nel nickname) che sostiene fermamente la tesi per cui “se una donna pubblica una foto in costume se l’è cercata.” La bufera dura qualche giorno, poi gradualmente si placa. I gruppi vengono momentaneamente cancellati a causa delle tante segnalazioni, per poi ricomparire su altri social, o anche sullo stesso, a volte senza nemmeno grandi modifiche nel nome – si veda l’illustre esempio di Canile2.0/Canile2.1.
In questi giorni all’attenzione di Twitter è arrivata la notizia di un canale telegram che conta circa 40.000 utenti (molti dei quali registrati in anonimo). Come i precedenti, è stato creato per essere un libero luogo di scambio di foto di donne/ragazze/ragazzine prese dal web (o dai cellulari degli utenti), una camera virtuale in cui dare sfogo a fantasie di stupro, violenza, incesto, pornografia. Tanto è tutto virtuale, non fa male a nessuno.
Di screenshot presi dal gruppo ne stanno circolando fin troppi: c’è chi sostiene di voler violentare la propria figlia dodicenne; chi si appella al branco per “punire” la ex — di cui allega selfie allo specchio; chi semplicemente sostiene di non sapersi proprio trattenere dallo stuprare ragazze a caso. Commenti, purtroppo, già visti e rivisti.
Non si tratta di revenge porn — o meglio, non solo. L’emergere di questi gruppi, in realtà, è semplicemente la prova tangibile di un fatto ben più grande e ben più radicato nella società: la cultura dello stupro.
Come ha fatto notare @lotticarlotta in un thread su Twitter, il punto non è tanto il sesso: di pornografia ne è pieno il web, e soprattutto gran parte delle foto pubblicate nel gruppo non sono erotiche. Il punto è il dominio, il potere, l’eccitazione derivata dall’idea di poter disporre del corpo di una donna a proprio piacimento, senza che lei possa opporre resistenza. Quello che davvero piace agli adepti è l’idea di sovrastare, di possedere, dimostrando al branco di sapersi spingere sempre un po’ oltre — per questo, oltre a indignarsi davanti agli screenshot di utenti anonimi che dichiarano di voler stuprare le figlie bambine, ci sarebbe da chiedersi se queste identità non siano forse costruite a pennello per dimostrarsi un po’ più violenti e dunque un po’ più forti degli altri. E perché, soprattutto, l’idea di stuprare una figlia possa essere invitante — volessimo fare psicologia spicciola e entrare nella testa dell’utente maschioalpha64 di turno diremmo: perché una figlia bambina è un corpo femminile che sente pienamente in suo possesso. In più non solo si tratta di stupro, ma anche di incesto, nella scala dell’“anti-moralismo” di cui si nutrono questi gruppi equivale a un jackpot.
Non sono le forme e i corpi ad eccitare gli uomini presenti in questi gruppi, quanto il desiderio di esercitare potere fisico e psicologico sulle donne. Farle loro, dominarle senza che queste possano opporsi.
E questa, di nuovo, non è altro che cultura dello stupro. E non c’entra nulla né con la sessualità né con il mondo del web. Nel 1975, Susan Brownmiller pubblicava il suo saggio Against our Will in cui, per la prima volta, veniva scritto nero su bianco che lo stupro non è altro che “un consapevole atto di intimidazione attraverso cui gli uomini tengono le donne in un costante stato di paura,” in altre parole un atto politico volto alla conservazione della subordinazione femminile.
La cultura dello stupro è da sempre presente nella società patriarcale (quindi nella nostra società), basti pensare agli stupri di guerra, con cui i vincitori umiliavano e “facevano loro” le donne delle popolazioni conquistate — una punizione non tanto inflitta nei confronti delle donne stesse, quanto in quelli degli uomini di cui queste donne erano a tutti gli effetti considerate una proprietà.
Ricorrere alla Storia è utile a confermare che non è il web a creare dei mostri, non è — come in molti sostengono — colpa dei social che permettono alle donne addirittura di pubblicare foto in costume da bagno sui propri profili, e non è neppure quell’“istinto maschile incontenibile e inarrestabile” a spingere maschioalpha64 a iscriversi a un gruppo Telegram per insultare sconosciute.
È la cultura dello stupro, che esiste e persiste nella società da millenni, e che viene semplicemente negata, o peggio, sminuita e legalizzata.
Quando poi esplode la bomba tutti ne parlano e gli screenshot diventano di dominio pubblico — cosa buona e giusta, da un lato, per mostrare cosa davvero avviene in queste chat, ma anche arma a doppio taglio perché si da a queste persone quello che vogliono, un po’ di attenzione — inizia il concerto di voci maschili in difesa dei commilitoni.
Tre sono di solito gli slogan più usati:- è solo una chat, come ve la prendete voi femministe;
- vabbé se le tipe inviano foto nude devono poi pensare alle conseguenze;
- non siamo tutti così (il tipico NOT ALL MEN).
La normalizzazione della cultura nello stupro è forse l’aspetto più agghiacciante di tutto questo avvenimento, ed è anche il motivo per cui alcuni meme di pagine come Sesso Droga e Pastorizia o La fabbrica del degrado (o meglio, dei gruppi chiusi che fanno capo alle pagine sopraccitate) non sono “solo meme.” Perché nascono da un concetto, da un’idea che nulla ha a che fare con il “black humour,” e non fanno che perpetrare la cultura della oggettificazione, della violenza contro le donne, dello stupro. Perché la pretesa di “scherzo,” “ilarità,” “svago” va a normalizzare il concetto secondo cui una donna può (e anzi deve) essere stuprata — volendo anche una bambina, perché le minorenni oggi sono cagne, sono zoccole, mettono i crop top, e allora possono essere prese, schiaffate in una chat, derise, insultate, ridotte a oggetto per esaltare l’ego machista. Tanto non è reale, tanto è solo una bravata tra uomini, la chat del calcetto, lo spogliatoio virtuale.
E invece no, non è solo una chat, non è un gioco, non è uno scherzo, non è boys will be boys. è cultura dello stupro talmente introiettata nella vita di tutti i giorni da risultare “normale.” Non fa ridere, e se vi fa ridere l’idea di mettere il guinzaglio alla vostra vicina di casa 16enne, mentre la spiate su TikTok, fatevi due domande.
Veniamo dunque al punto due: se la vicina sedicenne carica un video in cui balla in mutande, non è un invito ad essere messa da voi a novanta. Qui torniamo alla logica dell’uomo incapace di contenersi perché animale di natura, che francamente fa tanto Ottocento. Oggi su Twitter una ragazza ha sintetizzato il concetto in modo molto chiaro: alla domanda «cosa si aspetta una donna che pubblica sue foto osé sui social» ha risposto «il pieno rispetto.»
Ma è il terzo punto quello su cui maggiormente si discute, perché è sicuramente vero che “non tutti gli uomini sono così,” ma al tempo stesso tutti gli uomini (tutti) sono nati e cresciuti in una società patriarcale, in cui molti comportamenti violenti e misogini vengono perennemente normalizzati. Tutti gli uomini sono venuti a contatto con affermazioni o battute di amici, parenti, colleghi, e forse per tanto tempo hanno pensato che fosse semplicemente normale così. Anche se fidanzate, sorelle e amiche si arrabbiavano, e che sarà mai, loro mica la pensavano così davvero, solo faceva ridere la battuta in quel contesto.
I 40.000 uomini (quarantamila) iscritti al gruppo Telegram non sono dei malati di mente, incolti, pedofili (non tutti, almeno). Sono uomini che probabilmente vivono un’esistenza del tutto normale, magari hanno una moglie, una famiglia, o una fidanzata. Il punto non è se queste persone nella vita vera stuprerebbero una donna, il punto è che possano anche solo pensare di farlo o scriverlo senza rendersi conto della gravità dell’azione. Il punto è che si eccitino fantasticando di avere pieno potere su una donna, e che nella logica del branco questo li renda “veri uomini.”
E allora, se non tutti gli uomini sono così, magari quelli che sono tanto convinti di non esserlo è tempo che facciano qualcosa, magari anche solo ripensando a tutte le battute, gli scherzi e le chiacchiere da spogliatoio a cui hanno partecipato, o a quel meme che li ha fatti ridere — anche se, in fondo lo sapevano, c’era poco da ridere.
Perché, che gli piaccia o meno, minimizzare li rende inevitabilmente simili a chi in quel gruppo ci stava davvero.
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