In molti stati africani la quarantena significa repressione poliziesca
Dal Kenya allo Zimbabwe, si moltiplicano i casi di violenza ai danni dei cittadini che non rispettano — ma che spesso, semplicemente, non possono rispettare — le misure imposte per limitare il contagio.
in copertina, foto via Twitter
Dal Kenya allo Zimbabwe, si moltiplicano i casi di violenza ai danni dei cittadini che non rispettano — ma che spesso, semplicemente, non possono rispettare — le misure imposte per limitare il contagio.
Porto di Kilindini, venerdì 27 marzo, manca un’ora alla chiusura del traghetto che porta dall’isola di Mombasa al sobborgo popolare di Likoni, in Kenya, e due ore all’inizio del primo giorno di coprifuoco nazionale, imposto dalle sette di sera alle cinque del mattino.
La scena non è un po’ disordinata, come sarebbe lecito aspettarsi: è caos e violenza.
“Potevi vedere la loro furia mentre ci chiedevano di sdraiarci per terra. E poi hanno iniziato a picchiarci, un colpo dopo l’altro. E poi sono arrivati i lacrimogeni,” è quanto dichiarato da un giovane padre di famiglia che stava aspettando di salire sul traghetto. “Eravamo ammucchiati uno sopra l’altro: se c’era una persona con il virus in quella folla, allora tutti noi abbiamo il coronavirus in questo momento. Non ci stavano proteggendo. Ci stavano uccidendo.”
“Loro” sono gli agenti della General Service Unit, un’ala paramilitare del servizio di polizia del Kenya, composta da agenti di polizia altamente qualificati — un fatto che, se possibile, rende ancora più grave la reazione adottata.
Purtroppo scene come questa si sono replicate anche fuori da Mombasa: a Eldoret, dove domenica la polizia ha lanciato lacrimogeni per disperdere chi ancora non era dentro casa, a Kwale, dove la polizia ha sparato e ucciso un autista di boda per aver violato il coprifuoco, e in moltre altre località. “Continuiamo a ricevere testimonianze da vittime, testimoni oculari e riprese video che mostrano la polizia che attacca allegramente membri del pubblico in altre parti del paese” è la dichiarazione rilasciata da Amnesty International Kenya. “Siamo rimasti inorriditi dall’uso eccessivo della forza da parte della polizia”.
Basta cercare su twitter gli hashtag #CurfewinKenya e #PoliceBrutality per ritrovarsi davanti a centinaia di testimonianze come questa:
Per quanto sia importante limitare i movimenti come parte della strategia nella lotta contro il coronavirus, i metodi del governo per far rispettare questa direttiva lasciano a desiderare — e non solo per la spropositata dimostrazione di forza — ma anche perché non tengono conto della situazione sul campo. Ad esempio, la direttiva per i matatu di girare a mezza capacità ha portato alla congestione dei pendolari nelle stazioni degli autobus (c’è chi addirittura stava ancora aspettando dopo 3 ore di fila), esponendoli al rischio di contrarre il virus e rendendo il loro rientro a casa nei limiti orari del coprifuoco estremamente difficile. Ma a giudicare dalle reazioni avute, tutto questo non sembra importare agli ufficiali di polizia.
Purtroppo la situazione in Kenya rispecchia quella in molti altri Paesi del continente africano. Nel vicino Rwanda, il primo stato dell’Africa sub-sahariana a imporre un lockdown totale, due civili sono morti lunedì scorso dopo uno scontro con la polizia ― che nega di aver sparato per far rispettare il coprifuoco, affermando invece che gli uomini avevano attaccato un ufficiale dopo essere stati fermati.
In Sudafrica, solo per limitarci ai fatti più recenti, pochi minuti dopo l’inizio del lockdown (iniziato venerdì e lungo 21 giorni) la polizia ha usato idranti e proiettili di gomma verso gli abitanti delle township che non rispettavano le misure di distanza sociale. Dal momento che rispettare le norme di distanza sociale in uno slum è letteralmente impossibile, possiamo solo immaginare quali saranno le conseguenze in un paese dove il 23% della popolazione vive in insediamenti informali.
In Zimbabwe, lunedì 30 marzo è iniziato un lockdown di 3 settimane, in seguito alla conferma dei primi casi di Covid-19. Ancora pochi, ma già abbastanza per minacciare uno dei sistemi sanitari più fragili del mondo e mettere definitivamente “in ginocchio e sulle mani” la popolazione di un Paese dove la polizia è spesso criticata dai gruppi per i diritti umani per le repressioni violente — a volte, mortali.
Persino nelle piccole Mauritius la polizia è stata accusata di violazione dei diritti umani durante l’implementazione del lockdown (e ora sotto investigazione). Quella riportata è una lista breve, che si limita solo all’Africa Subsahariana, e non è in grado di riassumere tutti i casi di violenza e violazioni verso i cittadini per motivi di “pubblica sicurezza”. Non può riassumerli perché sono troppi. Quello che può fare è ricordarci di prestare attenzione, anche a casa nostra.
Gemma Ghiglia lavora come Communications Officer per una ONG grazie all’iniziativa EU Aid Volunteers