Westworld e l’esplorazione del concetto di identità

Prima di iniziare la terza stagione di Westworld, bisogna capire cosa rappresentano i suoi androidi.

Westworld e l’esplorazione del concetto di identità

Prima di iniziare la terza stagione di Westworld, bisogna capire cosa rappresentano i suoi androidi.

La seconda stagione di Westworld aveva lasciato gran parte del pubblico con diversi interrogativi e qualche recensione negativa: troppo complessa, era stato detto. Troppi personaggi, punti di vista, piani temporali. “Complesso” è sicuramente l’aggettivo che descrive meglio una serie come Westworld, fin dall’inizio. La prima stagione è decisamente complessa eppure era più o meno chiaro a tutti il tema, la domanda a cui la storia deve rispondere. Attraverso la messa in scena dell’alter ego robotico, dobbiamo chiederci se le nostre azioni, i nostri pensieri e sentimenti sono lo specchio della nostra natura più profonda o solo manifestazioni programmate da una realtà esterna — divinità, biologia, società o politica che sia.

Kiksuya, dall’identità all’alterità

Identità, libero arbitrio, memoria: nella prima stagione di Westworld questi temi sono così ben sviscerati che alcuni commentatori si sono chiesti se c’era davvero bisogno di una seconda stagione o se questa si ridurrebbe a nient’altro che un gioco solipsistico in mano a Jonathan Nolan, fratello del più celebre Christopher e sceneggiature dei suoi primi film. Le maggiori critiche sono arrivate dopo l’ottavo episodio, Kiksuya, che vede come protagonista Akecheta, l’host della Tribù Fantasma.

Foto HBO

Kiksuya è l’ottavo episodio della seconda stagione di Westworld: un attimo prima del gran finale tutto rallenta per permettere a un personaggio marginale di raccontare la propria versione della storia, per giunta in Lakota, idioma nativo americani che il 99% degli spettatori di HBO non conosce. Un passo falso? Alcune tra le principali testate online italiane l’hanno definito “un mix tra Pocahontas, Gli occhi del cuore, la tribù degli Arrapaho”, l’ennesima “paraculata” di una serie che mette alla prova la pazienza dei suoi spettatori per lasciare poi un messaggio banale, già detto e ridetto da Blade Runner.

La questione della derivatività di Westworld da Blade Runner, bisogna dirlo, non è una critica sterile. Al contrario, il rapporto tra queste due opere è di vitale importanza per comprendere cosa Westworld ha mutuato dalla tradizione fantascientifica e quali elementi di innovazione è riuscito a introdurre, ammesso che ce ne siano stati. Gran parte dell’immaginario fantascientifico attuale è debitore alla pioggia battente e alle luci neon che accompagnano tutta la pellicola, e al monologo di Roy Batty, capo dei replicanti ribelli: “Ho visto cose che voi umani…”

Poco prima di morire, infatti, è proprio l’antagonista, il capo dei replicanti ribelli a metterci davanti al tema del film: che cosa ci rende umani, del resto, se non il nostro bisogno di libertà? Nonostante gli androidi siano i veri “portatori di senso” all’interno della vicenda, però, Blade Runner resta un film scritto e prodotto per la Hollywood degli anni ‘80 e i ruoli narratologici restano chiari e privi di sfumature: gli androidi si limitano ad essere degli “strumenti” per consentire al protagonista di compiere il proprio percorso all’interno della storia, da antagonisti come i Batty o da oggetti del desiderio come Rachel.

Più alter che ego

Ma chiunque abbia un po’ di familiarità con la narrazione sa che la stessa storia, se raccontata da un altro punto di vista, diventa una storia nuova. E quello che hanno fatto Lisa Joy e Jonathan Nolan è stato prendere Blade Runner e riscriverlo dal punto di vista degli androidi. Ora l’androide ribelle non è più un pericolo da abbattere o una damigella da salvare (o stuprare): è diventato il protagonista della sua storia.

Le complessità della trama di WWII sono uno strumento per indagare la natura dell’io attraverso prospettive molteplici e con molteplici esiti: un punto di vista sfaccettato, che si definisce per contrapposizione a quell’io “universale” dietro il quale spesso si nasconde il punto di vista dominante, un io non maschio, non-bianco, non dominante, non-umano. Come i protagonisti di questa seconda stagione. Tutte le linee narrative che compongono (e sembrano disgregare) l’intreccio di Westworld II possono invece riunirsi sotto il concetto di “alterità”, concetto mirabilmente sintetizzato dalla figura di Akecheta nell’ottavo episodio. Cos’è, infatti, un nativo americano all’interno di un’ambientazione western, se non l’incarnazione stessa dell’Altro?

Gli androidi, nella fantascienza speculativa, vengono da sempre utilizzati come alter ego, uno specchio attraverso il quale analizzare la nostra natura di esseri umani. WWII ci mostra che c’è solo una cosa che noi umani non possiamo neanche immaginare, per parafrasare Batty, e quella cosa è l’Altro. L’Altro come individuo, non soltanto come rispecchiamento del nostro ego.

Joy e Nolan danno voce all’Alterità non soltanto nell’ottavo episodio di WWII ma nell’intera seconda stagione. L’intento è programmatico e “dichiarato” fin dai primissimi frame della sigla: se nell’intro della prima stagione vediamo delle macchine assemblare un androide in forma di cavallo, nella seconda l’animale rappresentato diventa un bisonte, animale autoctono, minacciato di estinzione a causa dell’eccessivo sfruttamento da parte dei coloni. Se nella prima stagione il cavallo rappresentava il ruolo “funzionale” degli host, il bisonte che distrugge la sua gabbia è simbolo dell’host ribelle, è l’anticipazione di Akecheta, l’androide che parla solo in Lakota non perché non sappia comunicare altrimenti (tutti gli host conoscono tutte le lingue) ma perché vuole farlo, perché riconosce in quel linguaggio un pezzo della propria identità, innata o costruita a tavolino che sia. Liquidare questo dettaglio come un “esercizio di stile” significa negare l’importanza di quel punto di vista, di quella specifica voce.

Figlie di Rachel

Foto: HBO

Allo stesso modo, l’androide assemblato nella sigla della prima stagione diventa nella seconda una androide femmina, con seni, lunghi capelli e persino un neonato tra le braccia. Già dalla sigla, WWII ci indica chi è l’eroe di questa storia, anzi chi sono: Dolores e Maeve, le prime tra i primi host a prendere coscienza della propria condizione al punto di ottenere poteri che non sospettavano di poter avere. Entrambe partono da una condizione di sudditanza (Maeve è la maitresse del parco mentre Dolores è la figlia del fattore, l’archetipica damigella in pericolo) ma entrambe abbandoneranno il loro personaggio per esplorare nuovi aspetti della loro personalità e nuove possibilità narrative. Dolores e Maeve sono entrambe figlie simboliche di Rachel, l’androide di Blade Runner che fa da assistente al dottor Tyrel. Ma se Rachel non riesce a riprendersi dal trauma di scoprire la sua vera condizione, Maeve e Dolores rivendicano la loro “alterità” e sfruttano le capacità di residenti senza mai mettere in discussione la validità di ciò che provano o pensano. La loro rabbia o il loro affetto sono sempre legittimi e hanno sempre un fondamento etico, giusto o sbagliato che sia.

La simbologia del materno introdotta dalla sigla è in particolar modo legata al personaggio di Maeve, che nel finale della prima stagione decide di restare a Westworld per cercare una bambina che in fondo non è “realmente” sua figlia. Una scelta che appare sconsiderata se continuiamo a giudicare Maeve in base al nostro punto di vista, secondo il quale legami e sentimenti dei non-umani sono privi di legittimazione. Ma Westworld ci chiede di sforzarci per accogliere un punto di vista che non ci appartiene: Maeve resta nel parco perché per lei quel legame è reale, il suo legame con l’host bambina è davvero fondante per lei, ha plasmato la sua personalità al di là di qualsiasi reset ed aggiornamento successivo. Maeve sceglie di seguire questa sorta di “istinto materno” nonostante per lei la maternità non sia altro che un pezzetto di codice scritto da qualcuno per renderla più umana e forse più debole. Ma forse, anche, più forte: perché l’umanità è la chiave che permette a Maeve di sopravvivere, di provare pietà, di battersi per gli altri e di comprendere le ragioni di chi è “diverso” da lei (gli esseri umani in primis, ma anche il suo alter-ego giapponese che rifiuta di seguire il suo consiglio perché ha una propria cultura, una propria etica da rispettare).

Al contrario della sua antenata Rachel, Maeve compie delle scelte e traccia le basi della propria personalità indipendentemente da ciò che ci si aspetta da lei in quanto androide.

Prima di guardare la terza stagione

Maeve, Dolores, Akecheta, Bernard: i protagonisti di WWII mostrano come l’identità sia un concetto molto più pragmatico, intersezionale, meno monolitico di come i libri di filosofia (occidentale, almeno) ci avevano fatto credere. Un’identità che qualcuno deve contrattare, strappare con violenza o persino rubare. Un’identità da accettare o da scegliere, nonostante il codice con cui siamo stati programmati ci dica che siamo diversi da come ci sentiamo.

Accettare i loro percorsi senza volerli necessariamente ridurre a una prospettiva univoca che pretende di essere universale è una strada che la fantascienza del prossimo futuro non può esimersi dal percorrere. E se in Blade Runner la “sfida” posta allo spettatore era quella di scoprirsi simile alla macchina e soffrire per lei (ma in realtà per il noi che vediamo in lei), Westworld ci chiede uno sforzo ancora più grande: sapremo immedesimarci anche se a sognare pecore elettriche è una femmina o un Lakota?