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Nel 1980 i posti per casi acuti erano 922 ogni 100.000 abitanti, oggi sono 275. Quarant’anni di tagli al sistema sanitario, tra mergermania e blocco del turnover, ci hanno lasciati completamente impreparati all’arrivo del nuovo coronavirus.

L’ospedale San Carlo si trova nella periferia Ovest di Milano, tra il quartiere di Baggio e quello di San Siro. La sua mole imponente è riconoscibile anche a distanza, dallo stadio, e tutti coloro che ci sono andati per vedere almeno una partita probabilmente ne hanno apprezzato il grigiore. Il San Carlo è dedicato a San Carlo Borromeo, e da anni necessita ristrutturazione. La struttura, secondo quanto riportato ormai nel 2015, avrebbe bisogno di lavori per circa 120 milioni di euro.

L’ospedale San Paolo si trova nella periferia Sud di Milano, tra il quartiere Barona e la Stadera. Anche la sua mole non è affatto disprezzabile, e lo si può vedere vicino all’autostrada A7 quando si lascia Milano per la Liguria, in genere per andare al mare. Il San Paolo è dedicato, come prevedibile, al noto santo cristiano, ed è un importante polo di formazione universitaria del milanese.

Dall’unione dell’ospedale San Paolo con l’ospedale San Carlo dovrebbe nascere l’ospedale Santi Pietro e Carlo, collocato a metà strada tra le due strutture — quindi in una zona vicina a San Cristoforo sul naviglio — per cui la regione Lombardia ha deciso che verranno investiti 450 milioni di euro da parte del governo. L’assessore regionale alla salute Gallera, che abbiamo imparato a conoscere a questi giorni, ai cittadini preoccupati per un eventuale chiusura del San Carlo — che non vale la pena spendere troppi soldi per ristrutturare, dai — ha detto di stare tranquilli: non ci si sbilancia troppo, ma la struttura continuerà ad essere in uso “per trattare le cronicità.”

Il Comitato di difesa della Sanità Pubblica-Milano città Metropolitana del Sud Ovest ha diffuso un appello su Change.org contro il gioco delle tre carte della regione, che punta ad aprire un ospedale all’avanguardia per chiuderne altri due. 

“Lorsignori programmano la chiusura di due ospedali, li lasciano marcire senza usare i 90 milioni stanziati da anni, per aprirne uno con 200 posti letto in meno, spendendo 500 milioni di € pubblici e distruggendo un altro pezzo di verde nel parco sud Milano.

Siccome i soldi pubblici non basteranno, li chiederanno ai privati che in cambio avranno la garanzia della restituzione con super interessi.

L’operazione verrà poi confezionata con la ”eccellenza della sanità lombarda” per farsi belli nelle cronache dei telegiornali, mentre nel frattempo noi, persone comuni, resteremo ad aspettare cure e assistenza che ticket e liste di attesa crescenti renderanno sempre meno disponibili. Questo ingrasserà i privati che,prima di essere medici, sono imprenditori assetati di profitto.”

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Questo prima che l’epidemia di nuovo coronavirus si abbattesse sul sistema sanitario lombardo. È presto per dire cosa succederà dopo che il peggio sarà passato, ed è anche difficile provare a concentrarsi con chiarezza su quanto sta succedendo oggi, tra il dolore per le vittime e l’impatto devastante della quarantena. Come si è arrivati a una situazione in cui nella regione più ricca d’Italia e tra le più ricche d’Europa un numero non precisato di persone sono morte perché non ci sono abbastanza respiratori per tutti — e tra le soluzioni inizialmente proposte e messe in pratica c’è stato l’acquisto di “fantascientifici caschi respiratori?

Il sistema sanitario lombardo negli ultimi vent’anni ha privilegiato l’impresa privata rispetto al servizio pubblico. In tempo “di pace” questo ha significato soprattutto una crescente disparità nella possibilità dei cittadini di accedere alle cure. In tempo “di guerra,” ha significato che potrebbero essere state perse molte più vite di quanto si sarebbe potuto evitare con una sanità efficiente e non sabotata.

È emersa con particolare forza soprattutto la mancanza effettiva di posti letto in cui ricoverare i malati che presentano i sintomi più gravi della Covid-19, e che necessitano dunque delle cure nel reparto di terapia intensiva. Come riportato da il Messaggero, il coordinatore dell’unità di crisi della regione, Antonio Pesenti, ha dichiarato che “Si fanno delle scelte, ma ciò fa parte della disciplina del trattamento nei casi di catastrofe. Se al pronto soccorso in una notte arrivano 50 persone da intubare e servono 50 ventilatori, e in quel momento non ci sono, il medico fa delle scelte.”

Allarghiamo lo sguardo. Secondo dati dell’OMS, il numero di posti letto per malati acuti — quindi per cose come chirurgie, ortopedie o medicina d’urgenza — in Italia si è quasi dimezzato dal 1997 ad oggi, passando da 474 a 275 ogni 100.000 abitanti. O per meglio dire: non “si è dimezzato,” ma è stato ridotto per una precisa serie di scelte politiche, che hanno di fatto lasciato esposto il paese a episodi drammatici come quello che stiamo vivendo in queste ore. Andando ancora più indietro, i dati sono ancora più stupefacenti: nel 1980 i posti per malati acuti erano 922 ogni 100.000 abitanti.

Quella italiana è una crisi amministrativa, non epidemiologica

I posti letto in Terapia Intensiva in Italia sono invece solo all’incirca 5.100 in tutta la penisola, quindi 8,5 ogni 100 mila abitanti: una percentuale incredibilmente bassa se si pensa alle cifre, ad esempio, della Germania, dove ce ne sono circa 35 ogni 100 mila abitanti. È superfluo sottolineare che se i posti in terapia intensiva fossero un numero superiore, più adatto alla popolazione e all’età media avanzata del nostro paese, quanto stiamo vivendo in queste ore avrebbe probabilmente sfumature diverse.

In un ottimo articolo uscito qualche ora fa su Valori, Rosy Battaglia riporta altri numeri di questo vero e proprio accanimento: dal 2009 al 2017, infatti, il sistema sanitario nazionale ha perso 46 mila dipendenti, tra cui 8 mila medici e 13 mila infermieri. E, a livello nazionale, negli ultimi dieci anni sono andati “persi” 70 mila posti letto.

Gli stratagemmi messi in atto per erodere il patrimonio sanitario pubblico sono vari. In Lombardia, il preferito è stato quello del cosiddetto “accorpamento:” fondere più ospedali in uno, come nel caso dei santi Paolo e Carlo milanesi, è molto efficace nel mescolare le carte e far passare un taglio radicale per un aumento dell’efficienza. Come fatto notare dal Comitato, la creazione di un nuovo ospedale in questo caso significherebbe un taglio di 200 letti.

Accorpamento vuol dire anche chiudere reparti, sempre con la scusa dell’efficentazione, per dirottare i malati da una struttura all’altra — o magari, chissà, a una clinica privata convenzionata più vicina a casa loro. È il caso ad esempio dell’ospedale di Busto Arsizio, in cui a settembre 2019 il reparto di oncologia si è visto azzerare i propri posti letto. Secondo il Comitato per il diritto alla salute del varesotto, i pazienti saranno “costretti a rivolgersi altrove, soprattutto in cliniche private. È oramai evidente che con l’ospedale unico, si vuole unicamente ridimensionare la sanità pubblica, a favore di quella privata. Pagheremo di più, per avere meno cure e servizi.” L’ospedale unico di cui si parla sarebbe quello che dovrebbe accorpare i due attualmente esistenti di Busto e Gallarate — anche qui: fondere per tagliare.

Quando si parla di Regione Lombardia ovviamente bisogna tener ben presente i nomi e i posizionamenti politici di chi l’ha governata negli ultimi venticinque anni. E, come tutti sanno, è la destra ciellino-leghista che è stata perfettamente incarnata dalla figura di Roberto Formigoni, governatore dal 1995 al 2013. Oggi, Formigoni sta scontando una pena di cinque anni agli arresti domiciliari per corruzione proprio nell’ambito della sanità lombarda, dopo essere stato detenuto per cinque mesi nel carcere di Bollate. Secondo il Pubblico ministero, solo nel caso Fondazione Maugeri Formigoni avrebbe indebitamente sottratto alle casse pubbliche circa 60 milioni di euro.

L’era Formigoni è confluita senza quasi colpo ferire nell’era Maroni, e poi nell’era Fontana. Ci sono stati altri scandali di corruzione a sfondo sanitario che sono emersi nel corso degli ultimi anni, ma è utile non fermarsi a considerare il livello esplicitamente criminale di questa gestione politica. Danni come quelli derivanti dall’accorpamento non sono punibili a livello penale e fanno meno scandalo: ma causano ugualmente un grande danno alla comunità, difficilmente quantificabile. Favorire la gestione privata della sanità vuol dire non mettere al primo posto la fornitura di un servizio e un diritto, ma il guadagno di un privato — che può decidere, come nel caso del San Raffaele, di costruire un gigantesco angelo sulla propria cupola immaginifica e riservare un mega-attico tutto per sé a un facoltoso buon amico come Silvio Berlusconi.

Citiamo solo qualche esempio di ospedali accorpati, chiusi o fortemente ridimensionati dalle giunte leghiste di Maroni e Fontana dal 2014 ad oggi: 

Nel 2015, in particolare, il sistema degli accorpamenti è stato incoronato come il miglior modo per gestire la sanità lombarda dalla riforma proposta dal governatore Maroni, che ha creato una serie infinita di nuove definizioni e abbreviazioni per indicare le “aziende ospedaliere,” e che secondo Quotidiano Sanità è stato caratterizzato da una vera e propria mergermania, dall’inglese “to merge” — fondere.

Alla luce di tutto questo attivismo regionale nell’ambito della sanità, l’impressione è che ci sia comodamente seduti sui propri allori e sui propri soldi, investendo dove conveniva anziché dove serviva, non immaginandosi mai nemmeno lontanamente che un giorno gli ospedali, anziché per far soldi, sarebbero tornati ad avere soprattutto lo scopo per cui sono stati creati: salvare la vita alla gente.


Edit, 10/03/20, 23:31: una versione precedente di questo articolo riportava cifre errate, sostenendo che i posti per terapia intensiva per 100 mila abitanti fossero calati dai 922 del 1980 agli attuali 275. Queste cifre si riferiscono più correttamente ai letti per i casi acuti. Abbiamo provveduto a correggere.

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