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L’Istat fotografa la situazione lavorativa delle donne in Italia: definite “perno del paese”, ma precarie e con contratti part-time — spesso non volontari — o a tempo determinato

Nel corso di un’audizione alla commissione Lavoro della Camera, l’Istat ha dipinto la situazione lavorativa delle donne in confronto a quella degli anni precedenti, notando un aumento dell’occupazione progressivo negli ultimi anni. Non spariscono però i problemi riguardanti la precarietà e i contratti a tempo determinato o part-time, spesso sottoscritti per vera e propria necessità. Stando al Gender Gap Report 2020 l’Italia si attesta alla 76esima posizione su 153 paesi per consistenza del gender gap — guadagnando una sola posizione rispetto al 2006. Le donne continuano a essere fortemente penalizzate dal punto di vista economico. Nella classifica parziale sulla partecipazione e le opportunità economiche l’Italia perde trenta posizioni rispetto al 2006 passando dall’87esimo posto al 117esimo. In un’altra classifica parziale, quella sulla salute e la sopravvivenza, il nostro paese scivola addirittura alla 118esima posizione — rispetto alla 77esima del 2006. 

Dal punto di vista legislativo, per quanto riguarda l’occupazione, norme come le “quote rosa” entrate in vigore negli ultimi anni hanno aiutato ad aprire i consigli d’amministrazione alle donne, ma non hanno risolto il problema in senso più ampio. Tra i dirigenti il gender gap è del 8,20%, mentre negli operai è del 10,60%, a fronte di un calo tra il 2016 e il 2018 che oscilla tra lo 0,6% e il 2,7%, contro il 4% nei quadri dirigenziali. 

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Secondo un’indagine di JobPricing il divario retributivo di genere dipende principalmente da alcuni fattori: le donne sono spesso coloro che svolgono le mansioni domestiche in famiglia, con la conseguenza che molte riducono l’orario di lavoro — e di conseguenza le ore di lavoro retribuite — chiedendo un part time; le donne tendenzialmente si trovano a dover passare più tempo da disoccupate rispetto agli uomini, cosa che influenza negativamente eventuali progressioni di carriera; le donne sono spesso occupate in alcuni settori che offrono salari inferiori a quelli in cui sono prevalentemente occupati gli uomini, a parità di esperienza e qualifiche —  come i servizi alla persona.

Il gender gap nel settore scientifico

Il settore dei ricercatori matematici e scientifici è quello in cui si soffre in maniera più consistente il gender gap. Durante la Giornata mondiale delle donne e delle ragazze nella scienza dell’11 Febbraio, sono state molte le iniziative realizzate per avvicinare le ragazze a un percorso universitario scientifico: alcune ricercatrici dei laboratori nazionali del Gran Sasso hanno tenuto una conferenza aperta alle scuole, l’Università di Perugia ha programmato una giornata apposita per l’avvicinamento all’universo scientifico, mentre al Museo di Storia Naturale di Genova, alcune ricercatrici hanno condiviso il loro percorso nella scienza. Un percorso tutt’altro che semplice, come testimoniano i dati riguardanti le lauree in università a indirizzo scientifico e tecnologico, che vedono 28.304 ragazze laureate contro 43.825 ragazzi. A cinque anni dalla laurea hanno trovato un lavoro il 92,5% degli uomini contro l’85% delle donne. Tuttavia, il divario più grande è, come sempre, nelle retribuzioni: nello stesso periodo di tempo, gli uomini laureati dichiarano di guadagnare in media 1.700 euro al mese, mentre le donne si fermano a 1.375 euro. Questi divari sono anche il risultato della chiusura del mondo scientifico verso le donne, anche a livello di considerazione generale in tutto il mondo. Prendendo come campione i profili Facebook e Twitter di 1.000 ricercatori, uno studio dell’Università della Pennsylvania ha scoperto come i post, anche uguali, delle ricercatrici donne generano il 45% in meno di like e il 48% di retweet in meno delle loro controparti maschili. Possono sembrare dati poco influenti, ma vedendo l’influenza odierna dei social network, sono dati da leggere per capire la situazione odierna riguardante il gender gap in ambito scientifico. 

Il gender gap in famiglia 

L’Istat traccia un quadro allarmante anche per le donne madri di famiglia, ancora vittima della tradizionale divisione dei compiti familiari. Questi stereotipi sono ancora molto radicati, purtroppo sia tra gli uomini che tra le donne, e nel 2020 molte si sentono di dover sottostare ancora a questi principi vecchi e maschilisti: sempre secondo i dati dell’Istat il 38,3% delle donne occupate afferma di aver modificato qualche aspetto della propria attività lavorativa per meglio adattare il lavoro alle esigenze della propria famiglia. Una percentuale che aumenta al 44,9% per le madri con figli di età compresa tra gli 0 e i 2 anni, mentre per i padri di famiglia la percentuale si ferma intorno al 13%. 

Con queste percentuali, diventa di fondamentale importanza la presenza dei nonni, ormai diventati a tutti gli effetti dei secondi genitori per le famiglie con figli fino ai 10 anni di età. Nei casi in cui entrambi i genitori sono occupati, i nonni si prendono cura dei nipoti nel 60,4% dei casi quando il bimbo più piccolo ha 2 anni, nel 61,3% quando ha da 3 a 5 anni e nel 47,1% se più grande. 

L’Istat parla di dati in miglioramento, ma il gender gap nel nostro paese, che deve ancora disintossicarsi dai soliti stereotipi nei confronti delle donne in ambito sociale e lavorativo, continua a esistere e a manifestarsi. I dati rappresentano solo una vittoria parziale. La nostra società, soprattutto nelle classi meno abbienti, ha bisogno di una mano più concreta di quella mostrata fino ad adesso. In molti paesi europei lo stato ha messo in atto politiche di assistenza familiare più attive ed efficaci di quelle italiane — mentre il nostro paese non riesce ancora a non considerare gli assorbenti un bene di lusso.

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