Che vita meravigliosa di Diodato dimostra che c’è vita oltre Sanremo

Venerdì 14 febbraio uscirà per Carosello Records Che vita meravigliosa, il nuovo album di Diodato. L’abbiamo ascoltato prima di Sanremo e ci siamo resi conto di quanto fosse realistica la sua vittoria al festival.

Che vita meravigliosa di Diodato dimostra che c’è vita oltre Sanremo

Tutte le foto di Giuseppe Gradella

Venerdì 14 febbraio uscirà per Carosello Records Che vita meravigliosa, il nuovo album di Diodato. L’abbiamo ascoltato prima di Sanremo e ci siamo resi conto di quanto fosse realistica la sua vittoria al festival.

È da molto prima dell’annuncio della sua partecipazione alla 70esima edizione del Festival di Sanremo che si parla di Diodato come di uno dei cantautori più interessanti del panorama musicale italiano. “Che vita meravigliosa,” il penultimo singolo estratto, veniva già suonato in radio da alcuni mesi e aveva ottenuto un grande riconoscimento da parte del pubblico e della critica, prima ancora che si parlasse di Diodato per il festival.

“Io parto sempre dal provino chitarra e voce, o piano e voce,” racconta l’artista alla presentazione di Che vita meravigliosa. “Ho questo modo di ragionare un po’ british, del sound avvolgente. Mi piace molto il suono da band, quando lavoro all’album mi piace circondarmi di musicisti, di gente molto brava che stimo,” prosegue entrando nei dettagli di questo nuovo lavoro. I brani del suo quarto disco, prodotto da Tommaso Colliva, possono essere ascoltati su piani diversi. Qualcuno potrebbe infatti accontentarsi del singolo di Sanremo, o fermarsi al ritornello da cantare a squarciagola. Altri invece apprezzeranno più in generale il cosiddetto bel canto, sicuramente la dote più evidente e invidiabile dell’artista, saper usare la voce come uno strumento, poterla modulare in base agli intenti spingendola per graffiare e riuscendo a tenerla indietro quando la canzone lo richiede. Ma a un ascolto più attento non si può non notare come il punto di forza dell’album sia la capacità di saper viaggiare a velocità diverse mischiando intimità e ritmo, mantenendo come filo narrativo costante un racconto senza fronzoli della vita e della sua imprevedibilità. Quella che Paolo De Francesco ha rappresentato in copertina con una bomba che sembra precipitare all’interno di una  piscina. “Da una parte può essere vista come un elemento negativo, dall’altra parte oggi la parola bomba viene utilizzata anche in senso positivo, quando si intende una cosa d’impatto, forte,” spiega Diodato.

Sullo sfondo di quasi tutte le canzoni del disco risuona un’orchestra. È il caso di “Fino a farci scomparire” e ovviamente di “Fai rumore,” un pezzo che parla di incomunicabilità, di rompere il silenzio. “Ho pensato che non ho mai scritto un brano per il festival. Più che altro mi faccio influenzare tanto dal tipo di arrangiamenti e dall’idea di suonare con un’orchestra, perché ce l’ho sempre in testa, tutti i giorni.” In “Alveari” invece gli archi sono in secondo piano e lasciano spazio a un arpeggiatore e a suggestioni più da club che da musica orchestrale, “ho cercato più volte in questo album di provare a raccontare ciò che penso io dell’amore, che mi piacerebbe soprattutto vivere e continuare a vivere anche nei rapporti con le altre persone, e cioè qualcosa di talmente importante che possa superare anche i nodi, il vissuto condiviso che talvolta rimane fino alla fine.” Se in “Non ti amo più” si racconta la conclusione netta, senza ripensamenti, di una relazione sfibrata, in “Quello che mi manca di te” qualsiasi certezza sembra essere rimessa in discussione — o forse la questione è solo che di certezze nella vita non se ne hanno veramente mai. “Un po’ come diceva Lennon in ‘Across the Universe’ anch’io ho un po’ questa idea fricchettona, di qualcosa che sopravvive anche a tutte le insicurezze personali, alle possessioni, alle piccolezze che talvolta ci sono nel vivere quotidiano e nella storia di coppia.” Ma nell’album non si parla solo di romanticismo e sentimenti. “La lascio a voi questa domenica” racconta il qualunquismo dilagante in cui la società si trova sempre più invischiata. Il contrasto è tra una generica positività suscitata dalla musica e la cronaca cruda di un evento drammatico: il suicidio di una persona. “Una domenica stavo tornando a Milano in treno, su un treno che accumulava ritardo, e pian piano abbiamo cominciato a chiedere cosa stesse succedendo. Poi è passato il capotreno e ci ha detto che nella stazione di Cattolica una persona si era suicidata… Io ho sempre avuto un rapporto particolare con la domenica perché mi mette una malinconia addosso che mi pesa un sacco. È anche uno dei giorni in cui scrivo di più, però probabilmente quella sensazione lì che avevo, unita al ritardo che aumentava, mi ha fatto vivere quella situazione in maniera un po’ più distaccata, nel senso che sono riuscito un po’ di più a guardarmi intorno e a rendermi conto che era partito una specie di circo del qualunquismo, e soprattutto un circo che non aveva nessun tipo di empatia. Sono partite queste discussioni che non tenevano assolutamente in considerazione il fatto che si fosse suicidato qualcuno. Nessuno ragionava sul fatto che qualcuno era arrivato a fare un gesto del genere. A livello degli arrangiamenti mi piaceva creare questo contrasto, una musica che sembra da trenino estivo, che però contrasta con questo testo che parla di un suicidio, e con questo qualunquismo imperante che sinceramente mi pesa un po’.”

“Qui ci sono due anni della mia vita, due anni importanti in cui ho capito anche che in qualche modo con la musica potevo davvero interagire con altre persone.”

Pensare a Che vita meravigliosa solo come a uno spin-off sanremese oltre a essere temporalmente scorretto — al massimo varrebbe il contrario — distrae dalla reale portata del disco, che si rivolge a un pubblico ampio ma pretende sempre qualcosa anche dall’ascoltatore, quantomeno una soglia minima di attenzione, la pazienza di un ascolto più accorto. Poi ci sono i brani più aperti, a squarciagola, è vero. Ma di regalato non c’è nulla e nell’epoca delle radio da sottofondo canzoni vocalmente spinte come “E allora faccio così” lasciano sempre qualcosa oltre la melodia e l’impronta vocale. Sarà che dal primo disco di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po’. E la vittoria a Sanremo, in questo caso, non è stata del tutto inaspettata. “Sicuramente credo di riuscire a mettermi sempre più a fuoco man mano che faccio musica, e comunque poi ogni album è irrimediabilmente una fotografia di un determinato periodo. Qui ci sono due anni della mia vita, due anni importanti in cui ho capito anche che in qualche modo con la musica potevo davvero interagire con altre persone. Mi sono reso conto che quando raccontavo la mia intimità immediatamente si creava una connessione con qualcuno. Credo che questo sia un album importante da questo punto di vista, cioè è ancora più un’apertura mia, e vi assicuro che è un lavoro molto lungo abbattere quelle barriere che dividono la tua emotività da tutto il resto del mondo.”

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