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in copertina, foto CC Olaf Kosinsky

Per superare una concezione patriarcale della leadership, dobbiamo mettere in discussione la percezione maschile della serietà.

Se li tagli di colpo, stai per lasciare il fidanzato. Se li porti nelle trecce sei un po’ una bambina, se li tingi di un colore che non esiste in natura cerchi solo di attirare l’attenzione. I capelli di una donna dicono tutto di lei, per questo ne devono parlare tutti. Persino Lutero, nel XVI secolo, si lasciava andare a un’osservazione sulle chiome femminili: “I capelli sono l’ornamento più ricco delle donne.” Forse invece bisognerebbe tacerne. 

Il più recente è forse il caso di Ivanka Trump, figlia del presidente statunitense e consigliera della Casa Bianca, sul cui cambio di taglio di capelli si è fatta abbondante cremlinologia. Viene da chiedersi perché prendere così seriamente una coda tagliata. Il bob effettivamente non è un taglio qualunque, è così strettamente legato alla tradizione di potere femminile, soprattutto quello politico, da aver cambiato nome: è diventato “pob,” il “political bob.” Margareth Thatcher, Hillary Clinton, Angela Merkel, così come Theresa May e Nicola Sturgeon, tutte hanno portato e portano oggi il pob, tenendoci moltissimo a che rimanesse sempre uguale: Thatcher andava 120 volte all’anno dal parrucchiere, mentre Clinton viaggia solo con una hair stylist, Isabelle Goetz, che sa esattamente dove mettere le mani. Tutte elette, o quasi, con lo stesso slogan implicito: “Con me avrete stabilità e progresso. Sono una donna, MA sono affidabile.” Cambiano i tailleur e le scarpe, ma la testa (e sulla testa i capelli) c’è sempre lo stesso messaggio: mascolinità nella femminilità. 

Il New York Times degli anni Venti, nel pieno della “bob craze,” data i primi esempi del taglio al 1903, quando due studentesse del Bryn Mawr College della Pennsylvania si sono presentate con i capelli corti per giocare a basket. Sempre nel 1903 Albert Lynch dipinge la sua Giovanna d’Arco: un caschetto dritto e severo, tagliente come la spada che si diceva fosse troppo pesante per lei. Al Greenwich Village, tra il 1908 e il 1912, le donne prendevano il caschetto in prestito dalle intellettuali russe, che lo usavano per non attirare l’attenzione della polizia. Vogue, che nel 1914 aveva criticato il taglio corto della ballerina Irene Castle come esagerato, capitola dopo solo un anno esibendo una pubblicità che insegna alle donne come fingere di avere un caschetto senza tagliare una ciocca. Negli anni Venti il trend era ovunque: bob rotondi su vestiti lisci e lucidi, che non si impigliavano nelle danze e davano lustro a icone del cinema come Clara Bow e Luise Brooks. Le accuse di “volersi comportare da uomini” arrivavano da ogni parte: chi si tagliava i boccoli quasi certamente beveva e si scopriva le gambe. Erano ribelli. L’attrice Mary Gordon riteneva il taglio un “passaggio per la libertà.” 

Luise Brooks. Sketch di I.M. Boris, copyright non rinnovato

Il bob torna negli anni Sessanta: più lungo, più gonfio, più opaco. Jacqueline Kennedy, le Supreme e le casalinghe americane à la“Edward mani di forbice” condividevano il segreto del decennio: la lacca. Il simbolismo di empowerment cresce fino agli anni Ottanta. Nel 1988 l’editor di Vogue Jodie Shields pubblica il pezzo “Call Me Garçonne” individuando nel bob un simbolo del femminismo. Nello stesso anno uno dei caschetti più famosi del mondo diventa direttrice di quella stessa rivista: Anna Wintour.

Il taglio a caschetto sembrerebbe quindi una lenta e rivendicata conquista, un fulgido esempio della moda che sconfigge il pregiudizio, e il patriarcato. La nuova cornice è però diventata troppo efficace: se il taglio mascolino è una fessura nel “men’s world,” i suoi confini si sono consolidati al punto da diventare rigidi, proprio come la rigidità di pensiero che il femminismo è nato per combattere. A tal punto, che le donne che non si uniscono a queste contro-proteste lo fanno per veicolare messaggi che vanno contro il femminismo tutto. 

Così in Italia: Mara Carfagna, Luciana Lamorgese, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Ma anche Giulia Bongiorno, Laura Boldrini, Maria Bernini. Politiche, donne, fedeli alla religione del bob: a destra e sinistra il messaggio di affidabilità è sempre uno. Sofisticate o essenziali, dimostrano di essere “donne con le palle:” solo così una donna può essere credibile, solo in questa cornice ha il permesso di occuparsi di affari da uomini. I capelli ordinati, disciplinati in un’immagine “no-nonsense”, senza fronzoli, sembrano allontanare il rischio di una crisi di pianto, una reazione isterica o un’improvvisa voglia di diventare madre. Persino la Veronica Castello di 1994, quella del quasi vent’anni dopo, si rende credibile come deputata di lungo corso tranciando i capelli ramati. 

Stesso vale per la scienza, l’imprenditoria, la moda: la direttrice generale del Cern, l’italiana Fabiola Gianotti, porta un bob lungo. Unica nella storia a essere riconfermata a capo del celebre laboratorio di fisica, nel 2012 è stata inserita nella classifica di persone più influenti del mondo dal Time classificandosi al quinto posto. Ancora più corti i capelli di Samantha Cristoforetti, la prima donna ad essere assunta negli equipaggi dell’Agenzia Spaziale Europea. Anche Miuccia Prada, madre della casa di moda, ha un bob. Idem per Francesca Bellettini, ad di Yves Saint Laurent dal 2013, e Diana Bracco, amministrattrice delegata della farmaceutica Bracco e presidente dell’omonima Fondazione. 

Fabiola Gianotti, foto di Claudia Marcelloni De Oliveira CC CERN

Femministe o no, le donne d’Italia e del mondo hanno poca scelta se vogliono essere a capo di ministeri, aziende e istituzioni. Se anche nel corpo come diceva Marshall McLuhan “il medium è il messaggio,” la teoria è sempre quella del detto popolare: “l’abito fa il monaco.” La scelta di portare i capelli lunghi in un luogo di potere, insomma, è praticamente ideologica — e potrà portarla a termine solo una donna che sia pronta a mettere in discussione il modello mascolino di affidabilità. E non si può non pensare a Hevrin Khalaf, che non portava il bob: segretaria del Partito della Siria del futuro, barbaramente uccisa dalle forze turco-jihadiste all’inizio dell’invasione del Rojava.