“Lei lo lascia, lui la uccide”: la protesta silenziosa delle colleuses francesi contro la violenza di genere

Armate di colla e fogli bianchi, le attiviste riempiono i muri delle città con messaggi a caratteri cubitali che ricordano le vittime di femminicidio o esprimono solidarietà alle sopravvissute.

“Lei lo lascia, lui la uccide”: la protesta silenziosa delle colleuses francesi contro la violenza di genere

Armate di colla e fogli bianchi, le attiviste riempiono i muri delle città con messaggi a caratteri cubitali che ricordano le vittime di femminicidio o esprimono solidarietà alle sopravvissute.


Su uno dei muri della placida cittadina di Lannion, in Bretagna, qualche giorno fa è apparsa una nuova scritta. Nero su bianco, leggeva: “Tra 20 femminicidi è Natale.” È stata cancellata nell’arco di due giorni. “Non c’è che dire, per quanto riguarda il servizio di pulizia questa città è davvero veloce,” hanno commentato per tutta risposta le attiviste di Collages Feminicides Lannion sul proprio profilo Instagram. “Ma lo è anche quando si tratta di aiutare le donne vittime di violenza coniugale?”

Partito da Marsiglia – dove da tempo la militante femminista Marguerite Stern, formatasi nelle Femen, riempiva i muri della città con messaggi shock sulle molestie sessuali – da mesi il movimento delle colleuses (in italiano le si chiamerebbe forse incollatrici) si è riappropriato degli spazi pubblici di mezza Francia. Le armi prescelte sono colla, fogli bianchi e lettere nere ritagliate a mano. Lo sfondo dell’azione militante – loro la chiamano affichage sauvage, o affissione selvaggia – è la notte fonda.

Lo scopo è precisissimo, nella sua semplicità: impedire ai propri concittadini di continuare a ignorare il problema del femminicidio, sbattendo loro in faccia, a caratteri cubitali, un’emergenza nazionale a cui la politica d’oltralpe (per non parlare, questa volta, di quella italiana) non riesce ancora a dare una risposta soddisfacente.

“Più ascoltate da morte che da vive,” Lione

In Francia, ogni due giorni una donna viene uccisa dal compagno o da un ex. Più che nelle vicine Italia e Spagna. A voler raccontare le loro storie – o anche solo ricordare i loro nomi – servirebbero pagine intere. Dall’inizio del 2019, sono già 137 i femminicidi confermati, contati dal collettivo @feminicidesfr. Date alle fiamme, soffocate, fatte a pezzi. Ridotte poi a una statistica che molti ritengono troppo bassa per rappresentare un fenomeno preoccupante a sufficienza, o incolpate per non essersene andate, per non essere riuscite a proteggersi.

Da anni i numeri non fanno che crescere, al punto da allarmare il governo di Edouard Philippe, che in settembre ha annunciato la creazione di mille nuovi rifugi e alloggi di emergenza per vittime di violenza e una serie di controlli a tappeto nelle stazioni di polizia, per capire come vengono gestite le denunce. Ulteriori misure dovrebbero essere annunciate entro il mese di novembre.

Nel frattempo, la violenza continua – come ha fatto notare un recente report del Consiglio d’Europa sull’implementazione della Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne in Francia. Nel paese, scrivono gli esperti, è necessario “aumentare il numero di servizi specializzati e rifugi dedicati per le donne vittime garantendo al contempo un’adeguata distribuzione geografica, intensificare le misure di formazione per tutti i professionisti, migliorare la risposta criminale alla violenza e rivedere la definizione criminale di violenza sessuale e stupro per assicurarsi che si basi sull’assenza del consenso dato liberamente.”

“Non voglio morire,” Parigi

A scardinare il silenzio talvolta assordante che circonda queste morti stanno le colleuses. “Emilie, 38 anni, e Laura, 18 anni, assassinate a Montauban,” dice un muretto di Lione. “Razia, 34 anni. 7 denunce. Pugnalata,” risponde un manifesto a Marsiglia. “Numero 18, Caroline. Abbattuta da Cedric, il suo ex”, si legge a Grenoble.

Altre volte, i muri diventano una lavagna per istruire i passanti sulla definizione di femminicidio, sui segnali visibili di violenza coniugale e sull’enorme ragione strutturale che sta dietro a questo flusso apparentemente inarrestabile di violenza: la mentalità patriarcale. D’altronde, la definizione di femminicidio, da dizionario, lascia poco all’interpretazione: parliamo di “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”, per citare il Devoto-Oli.

Così, dalle vie eleganti della ville lumière più borghese alle stradine scarsamente illuminate dei piccoli villaggi di provincia – passando per Strasburgo e Tolosa, ma anche per i territori d’Oltremare come la Guyana francese e la Réunion – si moltiplicano frasi semplici, ma affilate come una miriade di piccoli coltelli, che ricordano tutti i modi in cui istituzioni e individui possono essere complici. “No, un compagno violento non può mai essere un buon padre.” “Ha denunciato, ma è morta lo stesso.” “Amare non vuol dire possedere.”

Di tanto in tanto, si distingue un momento di dolcezza – come quando giri l’angolo e ti trovi davanti a un discreto “Femminicidi: ci mancate tutte quante.” Oppure, altrove, un “Sopravvissute alle violenze patriarcali: noi vi crediamo.”

“Il patriarcato uccide,” Lione

“Cerchiamo di rendere visibili le donne morte sotto i colpi dei loro (ex) compagni”, ha spiegato a Madame Figaro l’ispiratrice del movimento Marguerite Stern raccontando di come, a fine agosto, lei e decine di altre attiviste abbiano invaso i muri di Parigi con oltre 400 manifesti. “L’idea è di descrivere le cose così come stanno. I dettagli magari sono sordidi, ma è questa la realtà. Serve che le persone si rendano conto della violenza estrema con cui devono confrontarsi le donne.” Un’educazione sentimentale che ti fissa, implacabile, in grossi caratteri scuri quando parcheggi l’auto, passeggi con il cane, esci a fare la spesa. E che arriva, in questo modo, anche alle tante (troppe) persone che, nonostante l’evidenza, si rifiutano di vedere il legame indissolubile tra una mentalità patriarcale tossica e la violenza endemica a cui devono far fronte le donne.

Qualche uomo, ha raccontato Stern, si è offerto di aiutare a incollare i manifesti, ma il movimento ci tiene a rimanere prevalentemente femminile. Lo scopo, come nel caso delle grandi manifestazioni femministe organizzate in tutto il mondo in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, è anche quello di occupare spazio, di riprendersi luoghi che per secoli non sono stati “cosa da donne.”

Le fanno eco le attiviste di Collages Féminicides Marseille, che hanno voluto rispondere alle mie domande con una sola voce essendo volontariamente prive di portavoce o rappresentati ufficiali. “Uscendo tardi la sera per incollare i nostri messaggi, ci riappropriamo del nostro diritto a stare in strada dopo una certa ora della notte. Quante di noi si sono sentite dire ‘ehi, carina, cosa ci fai tutta sola in giro così tardi?’ Basta! Ci siamo rotte di essere trattate come bambini, vogliamo riprenderci la strada. Riappropriarcene. Perché la strada è di tutti,” spiegano.

“Con quest’azione allora passiamo un doppio messaggio: quello che scriviamo sul muro, sì, ma anche la nostra azione in sé, il fatto di osare stare per strada a esprimerci.”

“Non si uccide per amore,” Lione

All’origine dell’affichage sauvage come strumento di lotta femminista sta, emblematicamente, una delle madri fondatrici del movimento: Olympe de Gouges. Ai tempi dell’Ancien Regime, l’autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina fu tra le prime a esprimere le proprie posizioni politiche esponendo in pubblico dei cartelloni fitti di lunghe frasi. La pratica si intensificherà poi con la Comune di Parigi del 1871 – e le donne dell’Union des femmes pour la défense de Paris – per diventare col tempo mainstream, tra i poster ricchi di simbolismo delle suffragette e le proteste in piena rivoluzione sessuale degli anni ’60.

Oggi le attiviste si organizzano grazie a una rete di profili su Instagram, per concordare messaggi comuni brevi e d’impatto e tenersi aggiornate sui vari risultati locali. Di giorno, ci si coordina. La notte, è tempo di incollare. Sfidando le autorità con messaggi provocanti – come l’emblematico “Alle donne assassinate, la patria indifferente” affisso a pochi passi dall’Assemblea nazionale che è valso a diverse attiviste un verbale, nella notte tra il 6 e il 7 settembre.

Tutte le foto dell’autrice. In copertina, un muro di Lione.
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