Neverland di Mecna e Sick Luke è un disco che esce dalla sfera indie e dal guscio introspettivo dei lavori precedenti del rapper, pronto per il salto al grande pubblico.
Il disco ha l’ambizione di educare chi lo ascolta alla sensibilità emotiva, non sorprendiamoci se qualcuno un domani dovesse lanciarsi nel definirlo un classico.
Da sempre Mecna ci ha abituati a testi capaci di sondare e raccontare il lato più malinconico e riflessivo della sua personalità, riuscendo in questo modo a parlare anche di noi stessi e delle nostre paranoie.
A un anno di distanza da Blue Karaoke l’artista ha buttato fuori dieci brani che portano a galla il lato più umano, coscienzioso e dolce — ma anche meno battuto e popolare — del rap italiano.
Neverland, fuori per Virgin-Universal, è un disco in cui si riconosce al primo ascolto un’evoluzione rispetto ai lavori precedenti, la maturazione artistica che passa anche dalle produzioni di Sick Luke e l’esigenza di uscire dalla comfort zone in cui si culla gran parte del rap italiano — va detto, non Mecna —, dando periodicamente l’impressione di trovarsi in una fase crepuscolare.
Il risultato dell’esperimento non è, come in altri casi — vedi ad esempio gli ultimi pezzi di Rkomi —, uno sconfinamento brutale nel pop meccanico da rotazione radiofonica, ma un’ibridazione intelligente di suoni, stili, riferimenti, temi e generazioni, quelle dei due artisti, che tracciano uno dei percorsi più originali e complessi a cui stiamo assistendo nel panorama musicale italiano. Originale perché il rap, per colpa anche della trap, si sta per lo più avvitando su se stesso riproponendo all’infinito un canovaccio ormai usurato in cui frasi e suoni rimandano sempre alle stesse immagini egoriferite. Complesso per la capacità unica di sviscerare le insicurezze umane, dare tridimensionalità ai significati, affermare placidamente, senza un cenno di vergogna, come in “Akureyri:”
“Ho soltanto trovato quel lato felice dentro la malinconia che tutti spaventa a morte a tal punto da provare con ogni mezzo a scacciar via.”
In questo moto continuo di autoanalisi e emoticon tristi — ma a dire il vero in Neverland ci sono anche brani più aperti e radiofonici come “Pazzo di te” e “Perdo la testa” — qualcuno si potrebbe anche stufare sentendo parlare per lo più di relazioni appassite (o sospese), riflessioni su se stessi, occhiatacce al passato e sentimenti morbidi di rivalsa. A Sick Luke è toccato il compito di giocare con le atmosfere e gestire l’architettura dei suoni arricchendo il disco di sfumature, attualizzandolo senza rinnegare il passato — alcuni brani ricordano anche il Kanye West di altri tempi — ammorbidendo i bassoni con chitarre e pianoforte, quando serve gonfiando il ritmo — “Se apro gli occhi” —, realizzando un panorama sonoro in cui i beat risultano sempre ricamati sulle strofe, dove la ricerca del sample mette l’accento su tracce come “Si baciano tutti” e “Canzone in lacrime” facendole spiccare rispetto agli altri brani, smarcandole dalla ripetizione. L’impressione, arrivati alla fine del disco, è quella di aver ascoltato un album sfaccettato che sopravviverà all’entusiasmo del primo ascolto, privo di riempitivi e perfetto per una dimensione live avvolgente. Qualcosa che non si è arrivati a chiudere con l’ansia da prestazione e il fiato corto — nonostante per Mecna questo sia il terzo disco in tre anni e un po’ di fatica mentale sarebbe anche normale avvertirla.
Tra le canzoni emerge il pezzo che dà il titolo all’album, “Neverland, ” in cui sono innestate collaborazioni che allargano la vena riflessiva del brano e che chiunque avrebbe visto bene in un disco di Mecna. E infatti eccoli lì: Generic Animal, PSICOLOGI e AINÉ. Altre collaborazioni azzeccate, in quota rap, sono quelle di Luchè — onnipresente nelle uscite discografiche più importanti dell’anno —, Marïna e Tedua. Un altro pezzo da inserire tra i preferiti nella propria playlist Spotify è “Non dormo mai.” Tra le scoperte piacevoli vanno citate invece la collaborazione con Voodoo Kid, ma anche la conferma, rispetto al disco precedente, di CoCo.
Neverland è un disco che esce dalla sfera indie e dal guscio introspettivo dei lavori precedenti pronto per il salto al grande pubblico. Ha l’ambizione di educare chi lo ascolta alla sensibilità emotiva, non sorprendiamoci se qualcuno un domani dovesse lanciarsi nel definirlo un classico. Quando pensiamo che il rap abbia esaurito la propria spinta a innovarsi ricordiamoci di fare dei distinguo e di riascoltare questo album che, dalla produzione ai testi, è un lavoro corale che premia uno degli artefici della trap italiana — l’inventore del suono della Dark Polo Gang, Sick Luke — e lo abbina a una delle penne più sottili del nostro rap.
Quando arrivi alla fine non puoi che sentirti così: :)
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