In Italia il malcontento verso la politica è fortissimo, e così i politici acconsentono a “diminuirsi.” Ma se la politica ammette che i politici fanno solo danni, che futuro ha?
Il dibattito sul taglio dei parlamentari, in tempo per il voto finale alla Camera di oggi, è stato completamente anestetizzato. Anche Partito democratico e Liberi e Uguali, infatti, si dicono soddisfatti delle “misure correttive” che sono riusciti a ottenere dal Movimento 5 Stelle. Così, sostanzialmente tutto l’arco parlamentare — da Liberi e Uguali a Fratelli d’Italia — si prepara a tagliare il numero di se stessi.
La nave ideologica del taglio dei parlamentari è così salpata che anche Emma Bonino, nonostante +Europa abbia deciso di votare contro il taglio, ci tiene a specificare che non è tendenzialmente contraria alla riduzione del numero dei parlamentari — solo, non le piace questo taglio dei parlamentari. Ci sono anche opposizioni più affascinanti, come quella di Ettore Rosato di Italia Viva, che voterà a favore ma ha precisato che la riforma non gli piace — e che “avrebbe votato una riduzione ancora maggiore dei parlamentari.”
In questa fase politica nessun argomento sembra essere così largamente condiviso, nemmeno l’odio per i migranti. Si tratta di un’istanza così bipartisan che il cambio di casacca di Partito democratico e Liberi e Uguali su questa riforma è avvenuta sostanzialmente senza percepite forzature, anche se fu proprio una riforma costituzionale simile a marcare la crisi che avrebbe poi portato alla scissione tra Articolo Uno e Pd.
Questa inevitabilità deriva dall’insoddisfazione generale di una larga parte di popolazione per le politiche dei governi italiani degli ultimi trent’anni, degenerata in una frustrazione verso le istituzioni in cui lavorano i politici anziché verso i politici stessi.
Il ragionamento che sta alla base di questa riforma costituzionale, se ci si ferma a considerarlo con più attenzione, è illogico: i politici non ci rappresentano e non fanno i nostri interessi, quindi ne vogliamo di meno. Un paese che sente di essere in crisi di rappresentanza politica dovrebbe domandare semmai istituzioni in grado di dare spazio d’azione a più rappresentanti dei propri interessi, non a meno.
La battaglia per il taglio dei parlamentari del Movimento 5 Stelle, a differenza di riforme precedenti, ha una forte componente economica. Si accusa che la politica costi troppo — tuttora, nonostante i molti provvedimenti che ne hanno ridotto drasticamente il costo, tra cui la sostanziale abolizione dei vitalizi. La riforma che viene votata oggi ha un valore proiettato di circa 150 milioni di euro, che sono soldi, ma nel contesto del bilancio di uno stato sono un errore di arrotondamento. Per questo è impossibile non vedere nella retorica, rimasta vivissima del taglio del numero dei parlamentari un’insoddisfazione profonda nei confronti della politica. Non è solo, o semplicemente, che la politica costa “troppo,” ma che i singoli politici, costano troppo. Non si capisce cosa facciano, sostanzialmente, e sono così lontani dai territori da cui sono eletti che sembra non valgano il proprio costo: sono uno spreco, bisogna “ridare al popolo i suoi soldi,” come ha detto Di Maio lo scorso luglio — praticamente soddisfatti o rimborsati.
Come per tutte le insoddisfazioni sociali, però, non è importante guardare solo la ragione e le cause profonde che la determinano, ma anche quale forza politica provi a offrire una risposta — e come. È così che sostanzialmente il Movimento 5 Stelle annuncia il quarto voto, quello definitivo, grazie al Pd: “Ridiamo dignità alle istituzioni,” come se il problema delle istituzioni fosse il numero di persone che ci sono dentro, e non quello che fanno. È un po’ come se, con una sola legge, si potesse ridurre il numero di ladri, perché l’immagine che il M5S disegna dei parlamentari e della politica è sostanzialmente questa.
Se la politica fa solo danni, o quasi, allora almeno che costi meno, no?
Al contrario di quello che vuole la retorica grillina — ora abbracciata sostanzialmente da tutto l’arco politico, come dicevamo — l’effetto della riforma è diametralmente opposto: è vero che riduce il numero di teste dentro le Camere, ma rafforza fortemente i partiti come entità, permettendo di azzerare con grande facilità correnti o semplicemente voci stonate. In questo senso, il taglio dei parlamentari si inscrive perfettamente nell’alveo delle politiche populiste che, dando risposte semplicistiche a problemi reali, fanno l’esatto contrario di quello che promettono: in questo caso accentra, blinda il potere dei partiti sui governi, protegge il potere, non limita i danni della politica — al massimo fa il contrario, e rende ancora più facili ulteriori misure contro i molti, ancora piú indifesi di prima.
È difficile, da questo lato della Storia, valutare se davvero la riforma apra a scenari apocalittici che potrebbero portare l’Italia a diventare un paese illiberale. Il problema, se quella è la preoccupazione, sta piuttosto nel fatto due più di metà delle persone che vanno a votare si riconoscono in partiti che sono più o meno di ispirazione neofascista, sia per contenuti che per modi. Quello che è certo, piuttosto, è che si tratti di una sconfitta del metodo della politica, che sacrifica uno dei propri meccanismi fondamentali all’altare di una misura che spera sia popolare.
Prima del Movimento 5 Stelle, quella della riduzione dei parlamentari era una battaglia con un chiaro colore politico. Ci provò proprio la Lega Nord nel 2005, con il supporto di Berlusconi, con la “devolution” del 2005, che passò senza il voto favorevole dei due terzi e che fu poi bocciato in sede referendaria l’anno successivo, nel giugno 2006. Malgrado tutto, il sogno di un Senato svuotato, che non vota la fiducia e che risponde ai consigli regionali, continuò a combattere nei corridoi di palazzo per un buon decennio: risorto nella riforma costituzionale che Renzi fece propria bandiera, fu di nuovo bocciato — dolorosamente per l’allora presidente del Consiglio — da un referendum. Un progetto figlio dei personalismi in politica, che arriva da Berlusconi fino a Renzi.
In che modo la riduzione del numero dei parlamentari evita che si ripeta il caso degli esodati, che non si attuino ulteriori regressioni dei diritti dei lavoratori come il Jobs act, come impedisce che un partito prometta di nuovo di dare un reddito a più del triplo delle persone che poi renderanno eleggibili? Tra dieci anni, quando gli elettori saranno giustamente arrabbiati per le prossime riforme sbagliate che farà la politica — possiamo dirlo perché tanto ormai anche la politica stessa ammette che sarà così — che cosa si può fare dopo questo taglio? Chiudiamo del tutto il Senato? Riduciamo ancora il numero di parlamentari? Quanto possiamo scendere ancora? Uno per regione? Uno per il Nord, uno per il Centro, uno per il Sud? Si tratta evidentemente di esagerazioni, ma il ragionamento è esattamente lo stesso con cui si è arrivati al voto oggi, e non è un caso che arrivi da un partito il cui padrone sostiene sia “inevitabile” il superamento della democrazia rappresentativa.
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