foto CC di Philip Taylor
Dagli immobili alle finestre, passando per le auto di lusso: qualche proposta creativa per provarci.
Il governo giallorosso, appena nato, è già diviso su molti fronti. Tra tutti, la linea di spaccatura più demenziale non corre su grandi temi sociali o politici, ma su una questione in apparenza secondaria: l’opportunità di tassare o meno il consumo di merendine e bevande gassate. L’idea è stata avanzata a inizio settembre dal nuovo ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, ma non è nuova. Anzi, nonostante la Lega si sia lanciata a pié pari per ridicolizzare la proposta, era stata proposta dal precedente governo gialloverde, in particolare dalla ministra della Salute, Giulia Grillo. La cosiddetta “sugar tax,” va detto, è già stata al centro di esperimenti all’estero, soprattutto nel Regno Unito e in alcune città degli USA.
L’obiettivo, secondo quanto dichiarato da Fioramonti a Radio1, è semplice: “Indurre consumi più responsabili e al tempo stesso racimolare risorse che possano essere investite su ricerca e formazione, con un doppio effetto positivo.” Il ministro conta di ricavare da una tassa del genere circa 1,7 miliardi di euro. Per il presidente del consiglio Conte, come al solito molto esplicito e chiaro, “non è deciso ancora nulla, la valuteremo insieme, ci ragioneremo e ci confronteremo,” mentre Luigi Di Maio ha emesso un grido di dolore alla sola idea: “Fermi tutti. Noi abbiamo come obiettivo quello di abbassare le tasse, non di aumentarle.”
I timori del nuovo ministro degli Esteri sono in parte condivisibili, non perché le tasse di per sé non debbano essere aumentate, ma perché la tassa sulle “merendine” sarebbe profondamente ingiusta — l’ennesima imposta che, pur interessando beni di consumo non primari e pure non particolarmente salutari, andrebbe a colpire indiscriminatamente tutti i consumatori. E questo vuol dire che a pagarne le conseguenze più rilevanti sarebbero i consumatori meno abbienti — l’ennesima tassa, insomma, sulle spalle dei poveri.
Mentre il dibattito politico resta occupato da questa nuova proposta per spremere pochi spiccioli — meno di 2 miliardi — dalle tasche della platea indiscriminata dei consumatori, non si vede all’orizzonte nessuna proposta che preveda di andare a prendere i soldi là dove ci sono — ovvero, dalle tasche della minoranza più ricca della popolazione. Anzi, negli ultimi 25 anni, nonostante le lamentele di Confindustria, le tasse sui redditi e i patrimoni più elevati in Italia sono diminuite. Prendiamo ad esempio l’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche. Al momento della sua istituzione, nel 1974, prevedeva 32 scaglioni di reddito, con l’aliquota più bassa al 10% e quella più alta – per i redditi oltre i 500 milioni di lire – al 72%. Oggi le aliquote prevedono solo 5 scaglioni, con l’aliquota più bassa al 23% e la più alta al 43%. Nel frattempo, il prelievo sui profitti delle imprese è passato dal 37% nel 2000 al 24% nel 2017. Un bel guadagno per i più ricchi, che si è scaricato sulle spalle dei più poveri.
Come si potrebbe invertire la rotta e impostare il nostro sistema fiscale in senso più equo e redistributivo?
Una buona idea, molto semplice, è quella di introdurre una tassa patrimoniale. Come dice il nome stesso, una tassa patrimoniale è una tassa che va a colpire i patrimoni privati, mobili o immobili che siano. In Italia, i redditi non sono molto elevati, ma i patrimoni privati sono, in proporzione, cospicui. Una tassa patrimoniale potrebbe consistere in un prelievo progressivo su tutti i conti correnti a partire da una certa soglia, ma non solo. Una forma di patrimoniale è anche la tassa sugli immobili, come l’IMU. La tassa patrimoniale è di per sé una sorta di bestia nera per la politica italiana, agitata come spauracchio dal centrodestra ma sempre esclusa anche dal centrosinistra.
Disinnescare questa retorica sarebbe semplicissimo: basta spiegare all’elettore medio che la patrimoniale non colpirebbe praticamente nessuno di sua conoscenza, garantendo che sia indirizzata verso i grandi capitali. Ribaltare il discorso su una questione di giustizia sociale: in Italia in moltissimi sono in difficoltà, ma molti vivono nell’agio — è il loro turno di dare una mano, una volta tanto.
Oggi l’IMU sulla prima casa non è in vigore. A meno che la prima casa in questione sia una villa, un castello o una residenza signorile, i proprietari non devono pagare imposte sulla dimora. Dietro questa apparente progressività catastale, si nasconde però la radice della disuguaglianza: non si paga l’IMU infatti nemmeno se si è proprietari di villini o di qualsiasi altro genere di casa che non sia, più o meno, una villa rinascimentale. Farla pagare almeno ai proprietari di villini — che è una categoria catastale a sé stante rispetto alle ville, per ragioni imperscrutabili — sinceramente non sembra una misura troppo draconiana.
Per far capire quanto il dibattito di oggi sia spostato a destra: nel 1695, Re Guglielmo III d’Inghilterra promulgò la cosiddetta “tassa sulle finestre” per ovviare al deficit statale. All’epoca — altri tempi! — in molti si opponevano al concetto stesso di dichiarazione dei redditi, vista come un’intrusione dello stato negli affari privati, e la tassa sulle finestre è stata un ottimo modo per aggirare questa resistenza. In sostanza, con questa tassa, più finestre aveva la propria casa — e quindi, più grande era — più si doveva pagare.
In questo contesto, in cui nonostante quanto detto sopra Confedilizia si permette ancora di asserire che “va abbassata la tassa patrimoniale sugli immobili,” proporre misure fiscali diverse da quelle in vigore è fondamentale. Ma se la proposta migliore che la politica riesce a partorire è una tassa sulle bibite gassate, forse si può fare di meglio.
In assenza del coraggio politico per indirizzare esplicitamente la tassazione contro i grandi capitali, le possibilità di tassazione sui beni di lusso, per tassare i più ricchi sul consumo invece che sul patrimonio, sono praticamente infinite.
In Italia una tassa sul lusso è stata inserita nella finanziaria del 2011, quando si parlava di “Salva Italia.” All’epoca il presidente del Consiglio Mario Monti si produsse in una delle dichiarazioni più di sinistra e più you don’t say della storia politica italiana contemporanea, commentando che esistevano “italiani ricchi o medi che sistematicamente non pagano le tasse.” In finanziaria fu inserito il “superbollo per le supercar,” (sic) una tassa sulle imbarcazioni, e nuove imposte erariali su aerei ed elicotteri. Il risultato fu molto deludente: la misura doveva portare a casa 155 milioni, praticamente niente per i conti dello stato, e invece ne portò 23, ovvero letteralmente niente.
Pper salvare l’Italia bisogna tassare il lusso molto più e molto meglio di così: si può partire dagli orologi, dalle pellicce e dalla gioielleria, come fece il pericoloso infiltrato comunista George H.W. Bush, ma ci si può impegnare di più. In particolare, il superbollo per le supercar era evidentemente non abbastanza ambizioso. La finanziaria introduceva un’addizionale erariale di 20 euro per ogni kW oltre la soglia 185 kW, che venivano progressivamente scontati in base all’età dell’automobile. Evidentemente era necessario o tassare di più, o tassare più auto. Dopotutto, siamo certi che chi si è comprato una Mustang 2.3 si possa permettere di dare allo stato più dei 1100 euro che gli chiedeva Monti. Noi partiremmo dal quintuplo.
Per concludere, qualche altro dato: in Italia il 20% della popolazione con reddito più basso ha un reddito pari all’1,5% più ricco della popolazione. L’1% della popolazione, a sua volta, ha in mano il 5,1% della ricchezza del paese: una percentuale che negli ultimi anni è stata in costante crescita — nel 2008 era il 4,8%. Volete sapere chi sono gli uomini più ricchi? C’è una comoda pagina di Wikipedia a riguardo, da cui si può notare come i patrimoni dei più ricchi siano aumentati in seguito alla crisi del 2008. Ultimo dettaglio: la metà dei super-ricchi italiani, dello 0,01% che guadagna più di 500.000€ annui, è residente a Milano, e solo il 7,5% di questi sono donne.