L’ammissione della sconfitta di Matteo Renzi

Non è la prima volta che Renzi si lancia in operazioni parlamentari iper–aggressive, ma questa è diversa: non è una mossa avventata per scalare il potere, ma una scommessa al ribasso, accettando di non contare più nulla dentro il primo partito di centrosinistra del paese.

L’ammissione della sconfitta di Matteo Renzi

Non è la prima volta che Renzi si lancia in operazioni parlamentari iper–aggressive, ma questa è diversa: non è una mossa avventata per scalare il potere, ma una scommessa al ribasso, accettando di non contare più nulla dentro il primo partito di centrosinistra del paese.

Dopo un lungo tira e molla, è successo: Matteo Renzi è uscito dal Pd — anzi, è in fase di uscita proprio nelle ore in cui stiamo scrivendo. Di scissione si parlava già da almeno due anni: dal giorno dopo il fallimentare referendum sulla riforma costituzionale dell’8 dicembre 2016, in cui Renzi chiese sostanzialmente agli italiani un plebiscito su sé stesso e venne sonoramente sconfitto, in un clamoroso caso di autocombustione politica, superata solo da quella recente e ancora più insensata di Matteo Salvini.

Renzi — nonostante avesse dichiarato che, in caso di sconfitta al referendum, si sarebbe ritirato dalla scena politica — è rimasto segretario e padrone del Pd fino a dopo le disastrose elezioni politiche del 2018, in cui il Pd vide i propri consensi calare a un drammatico 18%. Finalmente la sconfitta causò le dimissioni di Renzi da segretario, ma per misteriosi motivi il congresso chiamato a eleggere il suo successore venne convocato solo per la primavera dell’anno successivo, il 2019, dopo un anno di interregno del tremebondo Maurizio Martina. Già in tutto questo periodo l’addio di Renzi veniva comunque dato per scontato e imminente: si susseguivano senza sosta le voci di un suo abbandono per intercettare i voti dei delusi di Forza Italia, la sua voglia di creare una versione nostrana di En Marche!, il partito di Emmanuel Macron.

Ma il punto di non ritorno è stato solo l’ultimo congresso, il 3 marzo 2019: con la vittoria alle primarie del pericoloso bolscevico Nicola Zingaretti, presidente della regione Lazio, Renzi e i “renziani” si sono trovati in minoranza all’interno del partito, per la prima volta dopo vari anni.

Secondo quanto riporta l’Huffington Post, i versamenti di denaro per la fondazione del nuovo soggetto politico da parte dei parlamentari renziani più fedeli sarebbero partiti già a luglio, confermando quindi lo scenario secondo cui la scissione sarebbe stata già avviata quando Salvini ha avuto la brillante idea di staccare la spina al governo gialloverde, suscitando gli immediati appetiti di palazzo di Renzi.

Mentre scriviamo non sono ancora chiari i confini del nuovo gruppo parlamentare degli scissionisti, ma lo stesso Renzi ha parlato di una trentina di persone, circa venti alla Camera e dieci al Senato. Si tratta dei renziani più ortodossi del Partito democratico, con l’esclusione di Guerini e Lotti, che è difficile non vedere come quinte colonne dentro il Partito democratico.

Una volta che il gruppo parlamentare sarà formato cambierà necessariamente la “composizione” della coalizione che sostiene il governo Conte bis. Alla Camera, il governo è appoggiato da 343 seggi, comodamente sopra i 304 necessari per avere la maggioranza. Insomma, alla camera bassa i renziani non costituiscono una minaccia vitale al governo. Al Senato i numeri del nuovo governo sono già ben più risicati, e il Partito democratico fino a ieri aveva soltanto 51 senatori — perderne dieci al gruppo degli scissionisti cambia profondamente le dinamiche del gioco delle forze. Per rendere l’idea: la compagine di Leu, il cui supporto è costato un ministero importante come la Salute, è di soli quattro senatori. Il governo conta 169 teste, solo di otto persone superiore alla maggioranza di 161 — ovvero, se davvero fossero dieci i senatori del gruppo di Renzi, il “senatore semplice” avrebbe potere di vita e di morte sul governo.

In questo senso le preoccupazioni di Conte sono ben giustificate: quella coalizione il cui lavoro sarebbe stato certamente difficile ma che sembrava blindata dal supporto del Pd e dalla benedizione di Rousseau, ora si trova appesa, letteralmente, al partito di Renzi, e non, per perifrasi, un partito molto più multiforme e corale, che avrebbe magari saputo moderarne i toni. No, proprio letteralmente un partito di Renzi.

Malgrado Renzi abbia sempre raccontato la propria scalata alla politica come un underdog, il sindaco alla conquista del partito nazionale, la storia delle sue operazioni politiche è diversa, e la speronata all’ancora nascituro governo Conte bis si inquadra benissimo con altri tradimenti in situazioni ad altissimo rischio che hanno segnato la carriera dell’ex presidente del Consiglio.

Abbiamo già visto questo Renzi all’opera almeno due volte. La prima volta, nel 2013, quando dopo la decisione all’unanimità di spingere per Prodi alla presidenza della Repubblica 101 “franchi tiratori” votarono contro la linea di partito e affondarono non solo Prodi ma anche il Pd stesso. Renzi ovviamente allora come oggi nega il tradimento, ma è impossibile dimenticare come fu proprio lui a dichiarare che la “candidatura di Prodi non c’era più,” addirittura prima del candidato stesso, in un tentativo goffo quanto non necessario di blindare con ancora più sicurezza gli effetti del tradimento. Gli effetti di quel tradimento hanno segnato la politica parlamentare italiana in modo permanente: hanno portato alla deformazione di un “secondo mandato” di Napolitano, abbattuto la segreteria Bersani, e aperto il forno del governo di coalizione tra Pd e Forza Italia, con cui si sarebbe poi suggellato l’angolo con cui il Movimento 5 Stelle, e poi la Lega, avrebbero attaccato negli anni successivi il partito, inquadrando quell’esperienza di governo come naturale erede dell’esperienza montiana.

La seconda volta è molto più nota, e Renzi non ne può negare la paternità, ovviamente: è il capitolo dell’“Enrico, stai sereno” che avrebbe portato l’appena eletto segretario del Partito democratico alla presidenza del Consiglio. Nel gaslighting costante della politica italiana però è facile perdere per strada esattamente quanto male si consumò quella crisi. All’epoca l’aggressività dei renziani era tale che la proposta del programma “Impegno Italia,” banalmente il programma di un governo che doveva affrontare un rimpasto, divenne una sorta di sberla alla nuova segreteria del Partito democratico, che improvvisamente, senza che ci fosse letteralmente nessun cambiamento nella situazione del paese passò a parlare da #enricostaisereno a #pantanoitalia. (Erano gli anni in cui Renzi sognava di essere Obama anche su Twitter).

Il Renzi di oggi è molto più gonfio del Renzi appena eletto segretario del Partito democratico, ma come ha appena dimostrato, è ancora capace della cattiveria e degli exploit di una volta.

C’è una differenza sostanziale tra questi due assalti e la mossa di Renzi di questi giorni: almeno nel contesto della realpolitik, Renzi sembrava essere — o essersi posto — sui binari di un nuovo leader centrista italiano, un Silvio Berlusconi della piccola impresa che potesse governare per i prossimi dieci, quindici anni. Per quanto le sue mosse fossero già viste all’epoca come azioni da vero pirata, avevano, quantomeno, una giustificazione nel metadiscorso politico — Renzi era il nuovo, il giovane che doveva rompere gli ingranaggi della politica. E forse, da casa, dalle redazioni dei giornali, non era altrettanto chiaro, come invece era a lui, che per farlo serviva la forza, l’aggressività.

Questa volta invece, è tutto diverso: l’attacco di Renzi non segna un altro passo verso la conquista del potere, verso la rivoluzione dei quarantenni (andata come una bomba, proprio — nel senso che è esplosa), è l’esatto contrario. Segna la resa, l‘ammissione della sconfitta, o a voler essere particolarmente caritatevoli, l’inizio di una nuova fase: è finita l’era di Renzi capo, ed è iniziata quella di Renzi capetto. Fondare il proprio gruppo parlamentare, e immaginiamo, alla Leopolda il proprio partito politico, serve a una sola cosa: poter mettere la testa dentro la porta delle stanze dei bottoni di questo governo, non più come terza parte attraverso il Partito democratico, ma come vero azionista di coalizione.

Non è una semplice mossa di palazzo: quelle si fanno tutti i giorni nella politica ed è anche un po’ sbagliato demonizzarle, l’unico modo per non avere mosse di palazzo è non avere una democrazia. È una mossa al ribasso, con cui Renzi si arrende a non poter più influenzare da dentro il primo partito di centrosinistra in Italia per provare a trascinarlo da fuori, portando il conflitto interno in piazza — così magari escono su di lui un paio di editoriali in più sull’Huffington Post, che sembra essere il metro principale con cui il senatore misura il proprio successo.

Renzi si candida insomma a diventare una specie di nuovo Pierferdinando Casini — figura di cui al momento c’è grande bisogno, visto che il Casini vero, a differenza di Renzi, ha scelto di entrare qualche mese fa nel Partito democratico — e il risultato più ragionevole a cui può puntare nei prossimi anni è quello di emulare un altro suo grande precursore politico: Bettino Craxi, che guidando il suo PSI con il 10% di voti è riuscito, ponendosi come “ago della bilancia” tra il PCI e la DC, a dominare la politica italiana degli anni ‘80.

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Questo scenario però è in buona parte viziato da una semplice constatazione: la scena politica di oggi rende molto difficile per un personaggio come Renzi raggiungere questa posizione. Innanzitutto c’è una ricca concorrenza di partiti che vorrebbero proporsi come “ago della bilancia” del parlamento: uno su tutti il Movimento 5 stelle, che di trasformismo ne sa qualcosa, la cui stessa origine aziendale “apolitica”  lo costringe a doversi girare una volta a destra e una volta a sinistra per ottenere un partner di governo. L’altra strada possibile, per contro, è ancora più irrealistica: iniziare una campagna mediatica pervasiva, magari ispirata a quella di Salvini, per diventare un partito sì personale ma “a vocazione maggioritaria” entro le prossime elezioni — quindi al massimo nel 2023, ma probabilmente prima. Una cosa che ci sentiamo di dire sia praticamente impossibile per un personaggio bollito e bruciato, per quanto combattivo.

Questa scommessa è centrale anche per la tenuta stessa della nuova formazione politica. La sfida per il gruppo di Renzi sarà infatti giocata in buona parte sulla compattezza della propria combriccola: è vero che possono fare cadere il governo, ma i sondaggi finora hanno dato qualsiasi avventurismo renziano come tendenzialmente impopolare, e il gruppo vedrebbe drasticamente ridimensionata la propria presenza in Parlamento. Se insieme al risultato certamente non brillante dobbiamo calcolare anche il tanto agognato taglio dei parlamentari appare evidente che il numero di poltrone che il partito di Renzi potrebbe occupare sarebbe veramente risibile. Siamo certi che i renziani ortodossi usciti oggi con Renzi siano così sicuri della rimonta del proprio leader — o siano abbastanza paracadutati — da non essere preoccupati da uno scenario in cui passano da esserci trenta posti a… sei, sette, otto? Oppure assisteremo alla nascita del partitino più caricaturale e stupido di sempre, che sogna ancora la propria versione startuppara dei “pieni poteri” e che supporta riforme maggioritarie — e magari pure il presidenzialismo — dall’alto del proprio quattro percento?

Stefano Colombo ha partecipato alla stesura di questo articolo.
In copertina, Matteo Renzi dopo 14 chilometri di Tapis roulant, via Facebook