La ristorazione ai tempi delle shitstorm squadriste
Nel 2017, un ristorante di Milano è stato preso di mira da una valanga di troll online per aver assunto un richiedente asilo. Siamo andati a parlare con i proprietari per capire cos’è cambiato da allora.
Nel 2017, un ristorante di Milano è stato preso di mira da una valanga di troll online per aver assunto un richiedente asilo. Siamo andati a parlare con i proprietari per capire cos’è cambiato da allora.
Il Dongiò, aperto nel 1987, è un ristorante a gestione familiare da tre generazioni. Si trova a Milano, in via Corio, a due passi da Porta Romana. Del ristorante, Valerio M. Visintin — critico gastronomico celebre per la maschera, passamontagna e occhiali da sole, con cui mantiene l’anonimato— scrive: “Tra tante trattorie fasulle che popolano il panorama della ristorazione milanese, eccone una autentica, moderata nei prezzi e genuina in tavola”, per poi soffermarsi sulla cucina: “La linea è tradizionale, ma affiora qua e là una venatura calabrese che si manifesta soprattutto con la presenza della piccantissima ‘nduja: bruschetta con la ‘nduja, spaghetti alla tamarro.”
Raggiungiamo il ristoranate in una pallida mattina di febbraio, l’impressione di autenticità e cortesia del personale viene subito confermata. Ci accolgono Antonio Criscuolo, il proprietario, e suo figlio Thomas, caposala. Siamo qui per indagare un episodio accaduto due anni fa, nel marzo 2017. Ai tempi, il locale era stato oggetto di un articolo di Lidia Baratta su Linkiesta che raccontava come i Criscuolo avessero offerto una borsa di lavoro e poi assunto Kabore Dauda, un migrante ivoriano arrivato lì tramite lo Sprar — il circuito di seconda accoglienza gestito dagli enti locali in collaborazione con il terzo settore — di Trezzano sul Naviglio. Ai tempi, il proprietario raccontava: “Dopo una settimana di lavoro, Daouda era già bravo a impastare. Non avevamo bisogno di altra forza lavoro. Ma quando si è avvicinato il termine del tirocinio ci siamo accorti che rinunciare a lui sarebbe stato difficile.” Fin qui, sembrava solo la storia di un processo d’integrazione ben riuscito e una conferma dell’efficacia del circuito Sprar (Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati). Il giorno successivo alla pubblicazione, però, l’articolo viene ripreso da VoxNews — uno dei siti di disinformazione e propaganda che compongono la galassia informativa dell’estrema destra, e del cui dominio, peraltro, ancora non si sa il proprietario. VoxNews ne stravolge i contenuti per farli aderire alla vulgata xenofoba e complottista dei migranti che arrivano in Italia grazie ai “centri aderenti al piano di colonizzazione africano detto Sprar.” Nell’articolo — ancora online — si legge che Kabore Dauda scappa “dalla Costa d’Avorio, dove non ci sono né guerre né persecuzioni” (un’affermazione pretestuosa: stando all’Atlante delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo in Costa D’Avorio il 46% della popolazione vive sotto la soglia di povertà ed è succube dello strapotere dell’apparato militare), giunge a Vibo Valentia, in Calabria, e da lì comincia “un tour tra gli hotel per profughi di Bresso, Sondrio e Milano. Tutto a spese degli italiani.” In calce viene inserito il link alla pagina Facebook del Dongiò e i lettori vengono esortati così: “In caso vogliate portare i vostri complimenti, è la pagina Facebook del ristorante che assume richiedenti asilo ‘minorenni’ al posto di italiani.”
L’invocazione alla gogna ha un successo immediato: nel giro di poche ore, la pagina Facebook e il profilo TripAdvisor del Dongiò vengono sommersi di recensioni negative, molte delle quali improntate dal solito razzismo vittimista: “Assumete clandestini al posto di giovani italiani? Complimenti, siete solo uno schifo.”
Al ricordo dell’episodio, Antonio Criscuolo sorride amaro: “Siccome era un ragazzo che faceva parte di un’associazione, Villa Amantea, quando abbiamo deciso di tenerlo e di assumerlo c’è stata una richiesta da parte di organi di stampa e giornali web di intervistare e di approfondire questo caso: un ragazzo che viene dalla Costa d’Avorio e che si era inserito bene nel mondo lavorativo e anche nel mondo sociale, visto che ha una compagna e poi col tempo è diventato anche papà. C’è stata questa sorta di conferenza stampa coi principali organi di stampa, e così la notizia è finita anche sul web, dove però alcuni siti l’hanno rilanciata in maniera negativa nei nostri confronti.”
Il fenomeno che il ristoratore descrive, e che chiunque ha un profilo social ha più volte incrociato, è quello che il filosofo tedesco Byung-Chul Han ha definito “shitstorm”, una tempesta di merda. Secondo il filosofo, la shitstorm è un “genuino fenomeno della comunicazione digitale” reso possibile “in una cultura della mancanza di rispetto e dell’indiscrezione.” La shitstorm, però, non è che un sintomo di un malessere più profondo, come argomenta Franco “Bifo” Berardi nella sua recensione di Kill All Normies dell’antropologa Angela Nagle: “I lavoratori bianchi, che un tempo godevano del privilegio sociale garantito dalla colonizzazione imperialista e del privilegio culturale della solidarietà sociale e del progresso sono stati socialmente umiliati […] È un razzismo dei perdenti, quello di oggi, non più il razzismo dei dominatori colonialisti.” Che il caso del Dongiò rientri in questa categoria di fenomeni è evidente dai commenti che si trovano tuttora sulla pagina Facebook del ristorante. Chiediamo ad Antonio Criscuolo come ha affrontato la cosa, e se pensa che il clima politico sia cambiato dal 2017. Passandosi una mano sulla fronte ci risponde: “Ci sono stati dei commenti a cui abbiamo deciso di non dare assolutamente nessuna risposta e infatti in pochi giorni i commentatori sono scomparsi. Per fortuna, poi, nessuno è venuto a manifestare questi pensieri dal vivo. Il clima politico è sicuramente cambiato, ma in peggio: sempre più spesso si dividono le persone non per le loro capacità, ma per la provenienza geografica.”
Ma come può un ristoratore reagire a una valanga di recensioni negative? “Le recensioni sono importanti, ma noi cerchiamo di non darci un’importanza eccessiva,” ci risponde Criscuolo. “Se uno vuole mangiare etnico o toscano o calabrese può andare su internet, vedere i ristoranti che fanno questo tipo di cucine e leggere le recensioni. Ma se uno lavora bene conta ancora tanto il passaparola tradizionale tra i clienti.”
Schermendosi un po’, ma con fierezza, Criscuolo ci mostra il laboratorio, dove viene prodotta la pasta fresca e dove conosciamo Dauda, che tuttora lavora qui. Passiamo alle cucine dove conosciamo anche gli altri dipendenti. Il figlio, Thomas, ci cucina un piatto di Spaghettoni all’uso di Melissa.
“Questa vicenda sicuramente ci ha dato dispiacere – conclude Criscuolo – ma non ci ha assolutamente fatto prendere in considerazione di tornare sulle nostre decisioni. Non ci è mai passato per la testa.”
tutte le foto di Elena Buzzo
Questo articolo è apparso per la prima volta sul nostro primo numero di carta, ANTIFOOD.
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