La strada verso un mercato del pesce sostenibile è ancora troppo lunga
La situazione nel Mediterraneo è particolarmente grave. Gli enti certificatori si scontrano con la mancanza di dati sull’impatto delle attività di pesca sugli stock e sugli ecosistemi, mentre i mari continuano a spopolarsi e ad accusare i danni di pratiche umane irrispettose verso la natura.
in copertina: foto CC via Wikimedia Commons
La situazione nel Mediterraneo è particolarmente grave. Gli enti certificatori si scontrano con la mancanza di dati sull’impatto delle attività di pesca sugli stock e sugli ecosistemi, mentre i mari continuano a spopolarsi e ad accusare i danni di pratiche umane irrispettose verso la natura.
Dall’alba dei tempi l’uomo fa affidamento sul mare per procurarsi una delle principali fonti nutrimento della propria dieta, il pesce. Oggi circa 3 miliardi di persone traggono dal pesce il 20% del loro fabbisogno giornaliero di proteine animali. I dati FAO attestano che la crescita media annua della popolazione a livello mondiale ha già superato il ritmo di quella dell’industria di produzione ittica. La combinazione tra crescita demografica e del reddito, fenomeni legati alla globalizzazione, urbanizzazione e l’innalzamento degli standard di vita globali sono tutti fattori che determineranno nel futuro un’ulteriore crescita del consumo di pesce.Sulle tavole degli italiani c’è molto più pesce di quello che oceano e acquacoltura insieme possono darci: nel 2013 in Italia si producevano 140846 tonnellate di pesce, facendo fronte ad una domanda a livello nazionale di 228001 tonnellate. “In poco più di 3 mesi, l’Italia ha consumato l’equivalente dell’intera produzione ittica annuale nazionale e la restante parte dell’anno dipenderà dalle importazioni di pesce, soprattutto dai paesi in via di sviluppo” ha dichiarato la presidente di WWF Italia, Donatella Bianchi in occasione del Fish dependence day lo scorso 6 aprile. La conseguenza di questi consumi è una pressione crescente sugli stock ittici dei nostri mari: secondo il Direttorato Generale per gli Affari marini e la pesca l’88% degli stock ittici del Mar Mediterraneo soggetti a valutazione risulta sovrasfruttato. Basandosi poi sulle rilevazioni della FAO sugli stock ittici mondiali, la frazione pesce pescato in modo sostenibile ha continuato a declinare dal 1974 in poi ed il 33.1% degli stock ittici risultano sovrapescati.
Nemmeno l’Europa è autosufficiente in fatto di produzione ittica: il rapporto della Commissione europea del 2018 sul mercato del pesce attesta che gli europei consumano più del doppio del pesce che producono ogni anno.
A porre ulteriore pressione sugli stock ittici è la pesca illegale, che concorre slealmente con il settore di pesca tradizionale e, non essendo dichiarata, rende ancora più difficile quantificare lo sovrasfruttamento dei mari. Oltre alla popolazione marina, sono anche la salute dei fondali e l’equilibrio degli ecosistemi ad essere minacciati dalla pesca eccessiva ed irresponsabile. Metodi distruttivi, come quello delle reti a strascico o con esplosivi e cianuro, che uccidono o stordiscono i pesci per renderli più facilmente catturabili, danneggiano i fondali e stravolgono irrimediabilmente la biodiversità dei mari.
Secondo il rapporto di Tim Cashion che analizza l’utilizzo dell’attrezzatura di pesca e l’impatto che questo ha sugli ecosistemi marini, circa 300000 cetacei all’anno vengono feriti mortalmente perché impigliati in attrezzatura da pesca abbandonata o dismessa, mentre il WWF dichiara che il 60% degli scarti globali di pesce deriva dalle catture accidentali di specie marine nelle reti da pesca.
Seppur esistente da secoli, il settore dell’acquacoltura ha conosciuto una crescita senza precedenti tra gli anni Ottanta e Novanta e continua ad espandersi a ritmi annui del 5%, più velocemente di tutti i maggiori settori di produzione alimentare.
Il rapporto “Sofia” (Stato di pesca e acquacoltura) redatto dalla FAO nel 2018 conferma che nel 2016 il 53 per cento della produzione globale di pesce, circa 171 tonnellate, è stato rappresentato dall’acquacoltura. Il ruolo di questo settore è quindi indispensabile per soddisfare il fabbisogno mondiale di pesce, ma anche per lasciar “respirare” i mari, allentando la pressione sugli stock ittici a disposizione.
L’Italia si trova al quinto posto europeo per volume di produzione di pesce allevato e gran parte delle specie ittiche da allevamento, tra cui trote, anguille, spigole, orate ma anche pesci gatto e storioni, provengono da impianti intensivi. Questo tipo di allevamento si caratterizza per la somministrazione per mano umana di alimenti di tipo artificiale. Nel 2018 sono state censite dal Ministero delle politiche Agricole, Alimentari e Forestali 834 aziende di piscicoltura, la maggior parte situate nel nord del paese (Veneto ed Emilia Romagna). Il Veneto risulta la regione dove è concentrato il maggior numero di impianti d’acqua dolce, mentre l’Emilia Romagna è la prima per numero di impianti d’acqua salmastra. Oltre all’allevamento in vasche di cemento classicamente inteso sono sempre più diffusi gli impianti “a mare, che punteggiano le superfici al largo delle nostre coste, raccogliendo in gabbie galleggianti o recinti circolari i pesci allevati.
Nonostante questo settore possa porre parziale freno al problema dell’impoverimento degli stock ittici, anche allevare i pesci comporta rischi ambientali e può sollevare critiche di carattere etico. L’Aquacolture Stewardship Council è un’organizzazione internazionale no-profit, fondata da WWF e da IDH (the Sustainable Trade Initiative) che gestisce un programma di certificazione ed etichettatura per l’acquacoltura responsabile. ASC lavora con produttori di acquacoltura, trasformatori ittici, aziende di vendita al dettaglio e di ristorazione per promuovere scelte più rispettose dell’ambiente e socialmente responsabili per i consumatori che acquistano pesce e frutti di mare, per contribuire a accompagnare i mercati del pesce verso la sostenibilità ambientale. ASC non valuta gli allevamenti ittici direttamente, ma i certificati sono rilasciati da un’agenzia di certificazione accreditata in modo indipendente, nota come “Certification Assessment Bodies” o CAB. Questo certificatore esegue la valutazione degli allevamenti ittici e decide se questi soddisfano gli standard ASC.
“Come per tutte le produzioni alimentari, l’acquacoltura ha impatti ambientali e sociali, e i più prevalenti o difficili da gestire variano a seconda di una serie di fattori, come la specie allevata, o l’ubicazione dell’ azienda.” ha dichiarato Martina Spata, portavoce di ASC per l’Italia.
Il 12% della produzione ittica annua a livello globale è destinata ai mangimi a base di pesce, con cui vengono alimentate le specie allevate. Questo comporta il crearsi di un “ciclo vizioso” che allarga la domanda di alimenti a base di pesce e che non ridurrebbe significativamente la pressione sugli stock ittici marini nel lungo periodo. Dal punto di vista ambientale, le acque reflue provenienti dagli allevamenti, contaminate da mangimi, scorie contenenti sostanze chimiche e medicinali, vengono disperse negli ambienti circostanti e se non filtrate in modo appropriato possono alterarne gli equilibri biochimici.
Il rapporto “Lo stato della pesca e dell’acquacoltura nei mari italiani” a cura di S. Cautadella e M. Spagnolo evidenzia che l’allevamento intensivo con gabbie a mare esercita maggior pressione ambientale degli altri tipi di piscicoltura, poiché modifica direttamente la qualità dell’ambiente e la biodiversità marina. Nel caso di mareggiate o falle negli impianti a mare, i pesci allevati possono infatti fuoriuscire e disperdersi in mare, mischiandosi alle specie selvatiche, alterando così nel lungo periodo la genetica naturale delle specie. Un processo simile avviene quando pesci allevati vengono rilasciati volutamente nei fiumi a fini di ripopolamento. Allo stesso modo, la dispersione di cibo somministrato dall’uomo e di prodotti chimici negli ecosistemi naturali può modificare la dieta dei pesci selvatici e indebolirne la resilienza ecologica.
E il nostro paese, a che punto è nella transizione alla sostenibilità dei settori di pesca e acquacoltura? “In termini di sostenibilità dei prodotti ittici, l’Italia presenta un po’ di ritardo rispetto ad altri mercati europei, come la Svizzera o il Nord Europa. È però visibile un dinamismo e una proattività crescente nel mercato italiano, in cui le aziende dimostrano un interesse sempre maggiore verso la sostenibilità” ci dice Isabella Resca, responsabile della comunicazione di MSC. Ente “fratello” di ASC, il Marine Stewardship Council valuta la sostenibilità della pesca secondo tre criteri fondamentali: la salute a lungo termine dello stock ittico, l’impatto dell’attività di pesca sull’ecosistema e la gestione efficace dell’attività di pesca, incluso il rispetto di tutte le leggi locali, nazionali e internazionali. I prodotti delle aziende che rispettano questi criteri possono ottenere il marchio blu MSC, che garantisce al consumatore che il pesce che sta acquistando è stato pescato rispettando il mare.
La prima certificazione MSC in Italia e in tutto il Mediterraneo è stata conferita l’anno scorso ad O.P. Bivalvia Veneto, una flotta artigianale che pesca vongole nei distretti marittimi di Venezia e Chioggia. “È un buon punto di partenza in una situazione critica come quella del Mediterraneo, in cui ottenere la certificazione è estremamente complesso a causa delle condizioni degli stock ittici, ampiamente sovrapescati, e in cui proprio per questo c’è bisogno di un grande impegno verso la sostenibilità.”
La problematica maggiore riscontrata da MSC è la mancanza di dati, sia scientifici sia legati al pescato: pochissime specie hanno rilevazioni sistematiche sulla salute degli stock ittici e sull’impatto che le attività di pesca generano sugli stock e sugli ecosistemi.
Per quanto riguarda gli allevamenti invece, l’ente di certificazione dell’acquacoltura responsabile ha individuato 40 aziende in Italia che si conformano ai requisiti di allevamento sostenibile. La certificazione ASC richiede alle aziende ittiche di dimostrare, attraverso regolari controlli indipendenti, che soddisfano oltre 150 requisiti rigorosi tesi a preservare la biodiversità delle specie selvatiche, la qualità dell’acqua e dell’ambiente naturale: gli impianti che vogliono ottenere una certificazione devono assicurare la prevenzione delle fughe che potrebbero costituire una minaccia per i pesci selvatici e garantire l’uso responsabile di antibiotici, prodotti chimici e mangimi.
Nonostante la situazione allarmante in cui vertono gli stock ittici e gli ecosistemi marini che subiscono diretto impatto da parte dell’acquacoltura e dalla pesca, qualche iniziativa virtuosa nel campo c’è, che se pur non in grado da sola invertire le tendenze di consumo in grande scala, ha trovato dei canali diretti per portare all’attenzione pubblica alcuni di questi temi. Patagonia ha co-finanziato la produzione di “Artifishal,” un documentario che senza giri di parole mostra come le cattive pratiche utilizzate nei vivai e negli allevamenti ittici a livello globale stia mettendo realmente a rischio la sopravvivenza di alcune specie ittiche selvagge, come il salmone dell’Atlantico e la trota di mare. La WWF seafood guide è una pagina online che con l’aiuto di pochi bollini colorati fornisce informazioni aggiuntive sui pesci più comunemente consumati e sull’impatto che la pesca industriale ha sulle singole specie e sull’ambiente nel suo insieme. La strada verso un mercato e un consumo del pesce più sostenibile è comunque molto lunga, e lo scarto tra consapevolezza e azione molto più ampio di quanto non sembri.