Perché nel 2019 le persone sieropositive sono ancora discriminate?
Abbiamo parlato con Maximiliano, drag performer sieropositivo, da 8 anni noto con il nome Daphne Bohémien, che nei giorni scorsi ha condiviso la sua esperienza, per capire come si può combattere lo stigma, ancora fortissimo, contro le persone con HIV.
foto di Mattia Attorre, @piangoarcobaleni
Abbiamo parlato con Maximiliano, drag performer sieropositivo, da 8 anni noto con il nome Daphne Bohémien, che nei giorni scorsi ha condiviso la sua esperienza, per capire come si può combattere lo stigma, ancora fortissimo, contro le persone con HIV.
“Possiamo dire con assoluta sicurezza che una persona in terapia regolare e con viremia controllata non trasmette l’infezione. Questa è un’informazione tecnica che va contro lo stigma,” è quanto dichiarava Andrea Antinori, Direttore U.O.C. Immunodeficienze Virali dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive di Roma, in occasione della scorsa Giornata Mondiale contro l’AIDS.
Tuttavia in Italia lo stigma verso le persone sieropositive è ancora molto presente, conseguenza di un’informazione poco efficace — sia sulle modalità di trasmissione del virus, sia sulle prospettive di vita delle persone con HIV — e di una legislazione ferma all’immaginario degli anni Ottanta.
Il Piano Nazionale AIDS 2017–2019 nasce come superamento dell’ormai arcaica legge 135/90 e propone di rendere più facile l’accesso al test — che per i minori di 18 anni richiede l’autorizzazione di un genitore o di un tutore — di garantire a tutti, italiani e stranieri, l’accesso alle cure, migliorare lo stato di salute e la tutela dei diritti sociali e lavorativi delle persone sieropositive e promuovere la lotta allo stigma.
Purtroppo nella realtà questo piano resta largamente inattuato, l’informazione su cosa comporta essere HIV+ latita e la prevenzione sulla contrazione del virus non è sufficiente: non solo è stato bocciato un emendamento che avrebbe concesso la distribuzione gratuita di preservativi agli under 26, ai richiedenti asilo e alle persone con una malattia sessualmente trasmissibile ma l’Italia è anche l’unico paese Ue oltre alla Slovenia che non prevede l’educazione sessuale nel curriculum scolastico.
Non stupisce, quindi, che al 31 dicembre 2017 l’istituto Superiore di Sanità contasse 3443 nuove diagnosi, pari a 5,7 nuovi casi per 100 mila residenti (e una delle Regioni italiane più colpite è proprio la Lombardia). Inoltre, la Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS ipotizza che ci siano dalle 15 alle 30 mila persone inconsapevoli di aver contratto l’HIV, un dato sommerso problematico, dal momento che una diagnosi tempestiva è fondamentale per cominciare la terapia antiretrovirale e continuare a vivere una vita sana.
Per capire meglio cosa vuol dire convivere con il virus dell’HIV oggi, abbiamo parlato con Maximiliano, drag performer sieropositivo, da 8 anni noto con il nome Daphne Bohémien, che nei giorni scorsi ha condiviso in un post molto apprezzato su Instagram la sua esperienza.
https://www.instagram.com/p/BzDFvJ-ogUL/
Cosa ti ha spinto a condividere la tua storia su Instagram?
Era un po’ che ci pensavo. Io sono sieropositivo da due anni e, se mi veniva chiesto o se si parlava apertamente dell’argomento, non l’ho mai nascosto. Fa parte di me, ma è qualcosa che non dici proprio a tutti, come il segno zodiacale quando ti presenti, non dici: “Ciao sono Max e sono del leone,” se no sembri pazza.
Col tempo ho capito che è una cosa che andava fatta, non solo per me. In due anni sono cambiato molto ed è cambiata molto anche la mia vita, e ora sono in grado di prendermi cura di altre persone e contribuire in maniera positiva alla comunità. Circa un mese fa ho sentito parlare un ragazzo della LILA, nel suo discorso diceva pubblicamente di essere sieropositivo e vedevo che la gente intorno a lui non sapeva come reagire. E ho pensato “Cazzo, c’è ancora così tanta paura. Forse c’è bisogno che se ne parli di più, che si faccia più rumore.” E ho pensato al rumore che posso fare io nel mio piccolo, come performer, anche perché non conosco nessuno nel mondo in cui lavoro che dica di essere sieropositivo. Quindi forse è il caso di cominciare a muoversi.
La sierofobia in Italia è ancora molto forte: qual è lo stigma che accompagna le persone HIV+?
Le persone a cui l’ho detto, da subito, non hanno mai avuto nessun tipo di ostilità. Dipende inevitabilmente dal tipo di persone che frequenti e dal rapporto che hai con loro. Io ho pochi amici, molto, molto stretti e con loro questo problema non si è mai posto.
Sono convinto che ci sia tanta fobia soprattutto da parte di chi è sieropositivo, perché ha paura di dirlo, ha paura di quelle che possono essere le eventuali conseguenze, in un certo senso ha quasi sostituito il coming out: oggi dire che sei omosessuale non fa neanche più così paura, invece dire di essere sieropositivo sì. Perché ha a che fare con una malattia, con quel pensiero un po’ anni Ottanta a cui si fa ancora riferimento perché manca l’informazione. Oggi ci si concentra soprattutto su come prevenire — che è fondamentale — ma manca l’informazione sul “dopo”: io l’ho scoperto quando sono diventato sieropositivo che bastava prendere una pastiglia al giorno e che con la viremia [presenza in circolo di virus, ndr] azzerata potevo non trasmettere il virus. Sono tutte cose che ho scoperto dopo e che mi hanno sorpreso, perché all’inizio non sapevo bene come affrontare la situazione.
Qual è stata la tua prima reazione quando hai saputo di aver contratto il virus?
Quando sono andato a fare il test ero convinto di avere la sifilide, quando poi il dottore mi ha detto “Hai la sifilide ma hai anche l’HIV,” gli ho risposto “E ho vinto anche un set di pentole?”. Ho avuto talmente tanta forza in quel momento devastante a fare autoironia, che il medico si è scocciato e mi detto che non c’era nulla da ridere. Ma un medico ti deve informare su cosa fare dal momento della diagnosi in poi, come reagire lo decido io.
Secondo un’indagine LILA oltre il 30% delle persone con HIV ha riscontrato discriminazione in contesto sanitario o lavorativo, questa reazione mi sembra chiaramente appartenere al primo caso.
La discriminazione in contesto sanitario esiste. Anche un anno prima della diagnosi mi sono trovato in una situazione simile, quando sono andato a fare degli esami e la persona al desk leggendo la mia cartella clinica mi guarda e mi fa “Ah, ma alla tua età hai già avuto due volte la sifilide?”. Siamo nel posto in cui io meno dovrei essere giudicato e dicendomi questa cosa non mi fai capire e non mi aiuti. Farmi sentire giudicato può far sì che io non venga più a fare gli esami, o che io vada da un’altra parte. È veramente controproducente.
Oltre alla discriminazione in ambito sanitario, in Italia anche la prevenzione resta un problema enorme. Sembra che il Paese abbia perso la memoria storica, e si nota soprattutto dal fatto che l’incidenza maggiore è nella fascia 25-29 anni e che i casi tra i giovanissimi (16-24) sono in aumento. Secondo te quale potrebbe essere un modo efficace per fare prevenzione e informazione insieme?
Non fornendo dei corsi di educazione sessuale a scuola, manca la comunicazione con i giovani, che comunque dev’essere fatta nella lingua dei giovani: se continuiamo a comunicare avendo come riferimento il trentenne, è ovvio che il ragazzino di 16 anni non si interessa e non si informa, non si mette a leggere e a capire, perché ha 16 anni e non ci pensa. Fondamentalmente si tratta di marketing: riusciamo a vendere qualsiasi cosa a un sedicenne e a fargli credere che sia essenziale, com’è possibile che non si riesca a fare una comunicazione reale che serve realmente alla sua vita? È assurdo.
Hai una relazione stabile, a riprova che l’HIV non costituisce un ostacolo insormontabile alla vita di coppia. Eppure, sempre secondo l’indagine LILA, il 5% delle persone HIV+ intervistate non ha rivelato il proprio status al partner, citando come ragione principale il fatto di non sapere come affrontare la discussione.
Quello che ho fatto e che consiglio di fare è di mettere le mani avanti, ho sempre preferito essere sincero e trasparente e parlarne subito se vedevo che c’era un minimo di interesse. Pensavo, “se va via, va via adesso, e non magari tra uno o due anni, quando abbiamo costruito qualcosa insieme”.
Tra l’altro secondo me il senso di colpa che poi arriva per non aver detto una cosa talmente grande di te, e che non cambierà mai, diventa ancora peggio del fatto di essere sieropositivo. Come alla base di tutti i rapporti umani, è meglio essere essere chiari e trasparenti. Rende anche la gente più predisposta a capirti.
Cosa vorresti che passasse a chi leggerà questo articolo?
Quello che vorrei fare, e che è il motivo per cui ho deciso di pubblicare il post come primo passo di un percorso più ampio, è aiutare le persone sieropositive a uscire allo scoperto, a fare coming out, perché lo stigma c’è, esiste e lo vediamo. Però bisogna combatterlo e lo si combatte solo se si è in tanti, se si fa rumore e se la gente inizia ad ascoltarci. Perché se Daphne Bohemien è da sola è una, ma se iniziamo ad essere un gruppo di persone che dice cha hai una vita normale, che puoi essere felice, allora iniziano a cambiare le cose. Come per il Gay Pride, “la prima volta fu rivolta,” bene, facciamolo anche in questo caso.
La Pride Week si svolge a Milano dal 21 al 30 giugno. L’appuntamento per la tradizionale parata è sabato 29 alle 16:00 in piazza Duca D’Aosta. Ci vediamo lì!
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