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Questo articolo contiene spoiler per tutti e tre gli episodi della quinta stagione di Black Mirror.

Ma anche se non li avete ancora visti, non vi sconsigliamo la lettura: questo pezzo non critica particolarmente la trama dei singoli episodi, quanto la loro stessa premessa. Se avete percepito da lontano gli argomenti dei tre film per la tv, potete proseguire. Oppure potete leggere questo articolo e non vederli, vi promettiamo che durerà meno di tre ore e che potrebbe essere pure più divertente.

Quando Black Mirror ha iniziato a trasmettere su Channel 4, nel 2011, aveva un pregio che condivideva con pochissime altre produzioni televisive: commentava la nostra società senza essere didascalico, attraverso un uso esperto del codice del grottesco e mascherando le proprie forzature con l’elemento fantascientifico.

Nel passaggio da Channel 4 a Netflix, con i dodici episodi che avrebbero poi composto la terza e la quarta stagione, Black Mirror ha attraversato un’adolescenza complessa, in cui l’ideatore Charlie Brooker ha iniziato ad essere piú interessato alla speculazione tecnologica — per altro sempre piú monotona, con il proseguire della serie — e sempre meno interessato a un commento non immediato della nostra società.

Dopo la laboriosissima tech demo di “Bandersnatch,” Black Mirror con la quinta stagione è arrivato alla propria età adulta — ma lungo questo percorso ha quasi completamente perso l’acume che lo contraddistingueva, trasformandosi in una versione dozzinale, da Black Mirror, di se stesso.

Il secondo episodio della stagione, “Smithereens”, è quello che assomiglia piú di tutti a un tradizionale Black Mirror, ma è interamente compreso in queste tre brillanti idee mai viste prima su uno schermo:

– non bisogna usare il telefono guidando;

– i social network creano dipendenza;

– i social network ci desinsibilizzano.

Wow qualcuno aveva aperto Twitter il giorno che ha scritto questo copione! Congratulazioni per le idee originali. L’episodio tocca tangenzialmente temi complessi e delicati che potevano meritare il trattamento Brooker, ma l’autore, o la serie, sono ormai troppo seduti per ricavarne qualcosa di utile. L’episodio non perde un minuto nel discutere del problema della gestione dei dati dei defunti, non ha il coraggio di demonizzare il fondatore del social network fittizio dell’episodio e non prova nemmeno a gestire con tatto una trama che tratta di suicidio.

Cos’è successo? È successo che durante la propria fase tecnologica Brooker ha smesso di saper scrivere di esseri umani, e i propri personaggi, protagonisti di parabole, si sono trasformati in caricature.

Brooker in particolare sembra aver perso la capacità di parlare di sessualità in modo approfondito e le sue difficoltà nel creare personaggi di giovani donne sono peggiorate drasticamente dai già imbarazzanti precedenti della quarta stagione.

Striking Vipers

Il primo episodio della quinta stagione di Black Mirror riesce nel difficile compito di peggiorare non marginalmente “San Junipero,” l’episodio della terza stagione considerato da molti come il proprio preferito della serie.

“San Junipero” è ricordato per l’amore idilliaco e poi drammatico tra Kelly e Yorkie, ed è giustamente celebrato per la rappresentazione che ha garantito e la complessità della propria trama. Ma l’elemento Black Mirror della trama lo rende quasi terribile. È impossibile non proiettare nella puntata un ulteriore sottotesto, che etichetta l’amore lesbico di Kelly e Yorkie come lusso oltre la morte, negandone la validità, la possibilità stessa di esistere, nel mondo reale.

Una lettura in questo senso di “San Junipero” può sembrare faziosa a prima vista: la rappresentazione delle due protagoniste è così raggiante da farsi scudo di qualsiasi critica. Ma se la completa assenza di qualsiasi relazione LGBTQ in “Hang the DJ” gettava ombre sulla puntata della serie precedente, la gestione tragica degli argomenti trattati in “Striking Vipers” lascia pochissime speranze sulla futura rappresentazione di minoranze di genere nella serie, isolando, nella migliore delle ipotesi, “San Junipero” come un fortunatissimo incidente.

L’intera premessa di “Striking Vipers” è questa: e se fosse possibile simulare in un videogioco in maniera incredibilmente realistica l’atto di fare sesso?

Sorvoliamo sul fatto che si tratti di una premessa completamente forzata: ovviamente, quando avremo tecnologie simili a quelle immaginate dal film ci saranno applicazioni che simulano l’atto sessuale. No, ovviamente non saranno comodamente inserite all’interno di un picchiaduro, perché è una cosa che non ha nessun senso.

Il setup dell’episodio è sostanzialmente un triangolo: Danny vive una vita serena ma ripetitiva con la moglie Theo e il figlio Tyler, finché, giocando online con il proprio vecchio amico Karl, non inizia a tradirla nella realtà virtuale, proprio attraverso il personaggio femminile controllato da Karl.

Brooker è molto attento, in piú di un’occasione, a tranquillizzare lo spettatore omofobo: no, Danny non è bisessuale, e nemmeno gay; forse non lo è nemmeno Karl. L’intera premessa — fare sesso in realtà virtuale costituisce un tradimento? Come una realtà alterata influenza le proprie percezioni e i propri sentimenti? — è sprecata perché l’autore non ha apparentemente nessun interesse nell’esplorare le conseguenze del proprio setup. La prova di questa pigrizia è manifesta nella scelta — comune di questi tempi — di semplicemente tagliare il momento del confronto finale tra Danny e Theo.

Non che le alternative fossero molto migliori: ritrarre per l’ennesima volta un raro personaggio bisessuale come naturalmente infedele poteva essere perfino peggio. Ma ogni altra alternativa alla precisa rimozione di qualsiasi analisi sull’identità di genere sarebbe stata migliore di quello che ci è stato dato.

Rachel, Jack and Ashley Too

Nel terzo dei tre episodi della serie, Brooker torna con la propria rappresentazione semplicistica e quantomeno offensiva delle giovani ragazze adolescenti. Di nuovo, i difetti di “Rachel, Jack and Ashley Too” arrivano preannunciati dalla costruzione tremebonda del personaggio di Sara in “Arkangel,” il secondo episodio della quarta stagione. Ma se in quell’episodio alle difficoltà della vita della protagonista adolescente è perlomeno accordato il codice del drammatico, in questo episodio invece siamo interamente nel farsesco.

Lo humour e lo humour nero sono elementi fondamentali di Black Mirror, e lo sono dal primissimo episodio. Ma dove le critiche ben ragionate sul funzionamento della società dei primi episodi sembravano quasi un commento intellettuale, quello che resta in “Rachel, Jack and Ashley Too” è al massimo intellettualoide.

L’intero episodio, la cui premessa è evidentemente di sembrare un film tv disneyano in chiave Black Mirror, devolve rapidamente in un’ora abbondante di sfottò ai danni della protagonista, Rachel, una ragazzina di quindici anni colpevole di crimini contro l’umanità come ascoltare musica pop, voler imparare a ballare e interessarsi di trucchi.

Tutto l’episodio, cercando di far sorridere amaramente, ripete sostanzialmente la stessa scena, in cui la protagonista si rende ridicola perché una sempliciotta, goffa e impacciata. È un quadro di serena, perfino sana normalità, ma su cui Brooker sembra non trovare contegno.

La crudeltà dell’autore nei confronti di un personaggio che è completamente innocente, per il proprio divertimento di cui rende biecamente complice lo spettatore, è forse il segno piú evidente del declino intellettuale della serie, passato dall’analisi puntuale di “The Waldo Moment,” la puntata finale della seconda serie, ad accontentarsi di farci sbuffare dal naso per il trucco eccessivo che si è messa una ragazzina di quindici anni.

Deuteragonista alla figura di Rachel è quella della sorella maggiore Jack, inquadrata per tutta la puntata come quella “giusta,” matura, edgy come l’autore della serie, che ascolta musica rock. Ma il disprezzo di Brooker per le giovani donne si fa tragicamente evidente nella forzatura di una singola scena in cui il pubblico viene di nuovo tranquillizzato: anche Jack è immatura, e soprattutto è una “fake fan,” che ascolta musica alternativa solo perché era il genere che ascoltava sua madre, utilmente morta per rendere possibile il setup dell’ennesima famiglia disfunzionale con un padre assente.

“Rachel, Jack and Ashley Too” è uno dei rari episodi di Black Mirror ad avere piú o meno un lieto fine, ma malgrado le avventure scapestrate in cui trascina la protagonista, Rachel rimane comunque sotto al palco fino alla fine, perché una ragazzina di quindici anni che ascolta musica pop e vuole imparare a truccarsi in questa serie semplicemente non merita niente.

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È difficile arrivare alla fine delle tre ore abbondanti di questa stagione di Black Mirror senza arrivare alla conclusione che Charlie Brooker ha bisogno di spostarsi a ruolo di producer, o, per lo meno, ha bisogno di una co-autrice che curi i difetti dei propri script. Probabilmente le prossime stagioni di Black Mirror torneranno piú in forma — è difficile aspettarsi di peggio — ma la sempre piú evidente mediocrità che permea i copioni della serie rischia di minarne completamente il messaggio, facendosi parte integrante della macchina di alienazione e desensibilizzazione che ambiva a criticare.

Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.