Prima finirà il pesce, poi gli esseri umani
L’aumento costante della domanda di pesce ci ha portato a sistemi di pesca troppo intensivi, che costituiscono una minaccia ambientale grave. Se non regolamentiamo l’overfishing le conseguenze per il mondo saranno drammatiche.
in copertina, foto via Wikimedia Commons
L’aumento costante della domanda di pesce ci ha portato a sistemi di pesca troppo intensivi, che costituiscono una minaccia ambientale grave. Se non regolamentiamo l’overfishing le conseguenze per il mondo saranno drammatiche.
L’overfishing costituisce una minaccia non solo per il pesce e gli oceani, ma anche per la pesca stessa. Si tratta di una pratica suicida per il mercato, ed è evidente: stiamo pescando più pesce di quanto la natura ne produca.
Si tratta di un meccanismo folle, che viene per altro ancora incoraggiato da molti governi, perché, ovviamente, il potenziale guadagno sul breve termine è troppo difficile da sacrificare. È iniziato nelle scorse settimane, ad esempio, un nuovo piano del governo statunitense che prevede finanziamenti a tassi agevolati per la costruzione di nuove navi da pesca. Si tratta di politiche di sviluppo che non sono assolutamente necessarie, e che peccano di grave miopia. Ma gli Stati Uniti non sono soli, Cina, Giappone, Spagna e Corea del Sud investono per finanziare operazioni di pesca a strascico. Il dato assurdo è che, in realtà, senza finanziamenti da parte degli stati questo tipo di pesca intensiva non sarebbe così proficua. Una soluzione politica, al problema, insomma, è possibile.
Una soluzione, proposta dal National Marine Fisheries Service, l’agenzia federale statunitense che regola la gestione delle risorse marine, ha proposto di mantenere i tassi agevolati solo per le navi che si recheranno in acque che non sono già colpite da fenomeni di overfishing. Ma, come dimostrato da Martin Smith su Science, si tratta di policy impossibili da far rispettare, i cui effetti valanga sono impossibili da regolamentare.
Moltissime specie sono a rischio, perché le continue pressioni causate dalla pesca a strascico non permettono alle popolazioni ittiche di rimpiazzare gli individui pescati con la riproduzione naturale, e, le enormi reti raccolgono tutto ciò che trovano sul loro cammino, distruggendo interi ecosistemi. Uno degli esempi più evidenti è rappresentato dalla distruzione delle barriere coralline. Tra le aree maggiormente colpite ricordiamo l’Artico, le coste orientali dell’Africa e il Triangolo del Corallo.
Secondo dati WWF, le perdite conseguenti sono enormi e continuano a crescere in maniera allarmante. I dati sono stati confermati da molti studi. Per esempio, in Inghilterra e Galles, è stato dimostrato che la pesca a strascico ha portato a una brusca diminuzione di pesci che vivono sul fondale e un’alterazione degli ecosistemi dei fondali marini. Un’altra ricerca, basata su dati della pesca globale tra gli anni 1950-2015, dimostra che sono state rimosse enormi quantità di pesci dalle acque profonde, provocando enormi danni ambientali.
Anche il Mar Mediterraneo sta soffrendo, infatti, secondo quanto riporta la relazione annuale pubblicata dall’Unione Europea nel giugno scorso, le sue condizioni sarebbero le peggiori rispetto a quelle degli altri mari europei con ben il 90% degli stock ittici sovrasfruttati. Uno studio condotto sulla costa settentrionale di Creta (Grecia), confermerebbe che gli animali meno mobili sarebbero quelli che subiscono i danni maggiori.
Ancora, è stato dimostrato che il livello di danno ambientale dipenderebbe dal peso degli attrezzi sul fondo marino, dalla velocità di traino, dalla natura dei sedimenti di fondo e dalla forza delle maree e delle correnti.
A tutto questo c’è da aggiungere, inoltre, l’aumento dell’illegalità: sempre più le imbarcazioni riescono a trovare strategie per aggirare le norme, com’è successo In India.
Un altro problema è il “bycatch” (dall’inglese “catture accessorie”). Moltissimi animali, oltre alle specie d’interesse, finiscono ogni anno nelle reti da pesca. Come mostrano i dati di Greenpeace e del WWF, milioni di delfini, uccelli (soprattutto albatri) e squali vengono eliminati a causa di tutto questo.
Animali come gli squali e le razze hanno tassi di riproduzione più lenti rispetto ad altre specie e per questo sono maggiormente minacciati dalle pressioni di pesca.
In particolare, gli squali sono soggetti anche a pratiche crudeli, come lo “shark finning” (dall’inglese, “spinnamento”). Una volta pescati, a questi animali viene tagliata la pinna dorsale, per poi essere rigettati in mare ancora in vita, condannandoli ad una morte piena di sofferenze. Nonostante siano stati fatti dei tentativi per cercare di proteggere questi animali, la strada è ancora molto lunga, anche per la scarsa conoscenza che possediamo sui loro comportamenti, la riproduzione e le loro migrazioni. Per questa ragione, la Save Our Seas Foundation ha destinato dei fondi per la ricerca su queste preziose creature.
Metà circa del pesce che finisce sulle nostre tavole, inoltre, proviene dall’acquacoltura, ovvero grandi allevamenti in zone marine recintate. Questi ultimi, però, non sempre vengono gestiti correttamente: l’utilizzo di sostanze chimiche e antibiotiche, scarti eccessivi in aree concentrate e scarse condizioni igienico-sanitarie sono le cause principali che portano a numerosi danni ambientali.
Se non mettiamo un freno all’overfishing le conseguenze saranno drammatiche. Specie come il pesce specchio atlantico, il branzino cileno e il tonno rosso sono al collasso e secondo quanto riportava un rapporto scientifico del 2003 le popolazioni di grandi pesci oceanici sono state ridotte al 10% rispetto alle popolazioni pre–industriali. Secondo gli scienziati anche altri stock ittici saranno eliminati entro 25 anni. Il Dr Daniel Pauly, professore e direttore dell’Università del Centro di Pesca della British Columbia, infatti, afferma che: “il grande pesce, le cernie, le grandi cose saranno sparite. Sta accadendo ora. Se le cose non vengono controllate, avremo un mare pieno di piccole cose orribili che nessuno vuole mangiare. Potremmo finire in una discarica marina dominata dal plancton.”
Nel 2006 sulla rivista Science è stato poi pubblicato uno studio, secondo il quale se continuiamo a pescare a ritmo sostenuto, tutte le attività di pesca crollerebbero entro il 2048. Già a Plymouth, un porto del Devon, in Inghilterra, la pesca è in crisi.
Ma l’overfishing non è la sola minaccia per i nostri oceani: l’inquinamento e i cambiamenti climatici sono altri grandi problemi. Come sostiene il WWF, l’80% delle sostanze inquinanti in mare (tra questi ricordiamo: plastica, fertilizzanti e spazzatura di vario genere) deriverebbe dalle attività umane sulla terraferma, che causano gravi conseguenze sia per l’ambiente, sia per la nostra salute. Uno studio di Ramirez et al., dimostra, inoltre, che le principali aree dove si concentra la maggior parte della biodiversità marina, sono fortemente colpite da surriscaldamento globale.
Per cercare di salvare i nostri oceani e i nostri mari, le soluzioni potrebbero essere diverse. Si sente sempre di più il bisogno di promuovere tecniche sostenibili che arrechino il minor danno possibile. Secondo una stima, infatti, seguendo questa strada, si diminuirebbero i danni globali, incrementando i profitti e il pesce in mare si incrementerebbe del 36%. Una corretta gestione della pesca è un altro passo in avanti: un riscontro favorevole in tal senso ci viene dall’Alaska, dove, il monitoraggio delle popolazioni del salmone e della stessa pesca ha garantito che queste specie ittiche riescano a mantenere alti tassi di riproduzione e un conseguente perfetto equilibrio nell’ecosistema. Per cercare di arginare il fenomeno, sono stati emanati specifici regolamenti e molte attività di pesca sono state “ecocertificate”,t uttavia, c’è la necessità di maggiori controlli per far si che queste regole vengano rispettate. Una ricerca di Nielsen et al. ha dimostrato che marcatori associati a geni potrebbero essere la soluzione contro l’illegalità. Sono stati anche avviati specifici programmi, come il Sea Food Watch del Monterey Bay Aquarium e il WWF seafood Guide, per indirizzare consumatori, ristoranti e interessati alla pesca verso le migliori scelte per la sostenibilità degli oceani e l’MSC per contrastare la pesca illegale, non dichiarate e non regolamentata. La risoluzione sulla Pesca delle Nazioni Unite del 2006, unita a una maggiore collaborazione con i mercati, i consumatori e altre parti interessate può aiutare gli Stati e i pescatori a sviluppare e applicare una corretta gestione della pesca.
Misure come le reti di maglie maggiori, la rete a sciabica, l’impiego di materiali più leggeri e metodi persuasivi (es. Impulsi elettrici) hanno contribuito a limitare i danni ambientali. Iniziative come il 50% Project che hanno lo scopo di migliorare gli attrezzi da pesca, stanno contribuendo a ridurre gli scarti. In alcune località del mondo, le attività di pesca sono state vietate.
Anche istituire aree marine protette, ben gestite e regolamentate, giocherebbe un ruolo fondamentale, infatti, secondo Greenpeace, sarano molto importanti per garantire alle nuove generazioni di disporre di oceani sani. Infatti, santuari dei pesci come quello di Pulizica, in Mozambico, istituito dall’associazione CARE-WWF, si sono rivelati strumenti molto utili per la conservazione delle specie.
Anche enti e associazioni come Il Marine Conservation Institute si impegnano a tutelare gli ecosistemi più vulnerabili. Nel 2008 è stato poi lanciato il progetto “Pristine Seas” da Enric Sala, esploratore del National Geographic che ha lo scopo di esplorare e proteggere le ultime aree selvagge dell’oceano con l’aiuto di vari collaboratori, per cercare di formare una rete di aree marine protette.
Per contrastare l’inquinamento della plastica, in occasione della giornata dell’Ambiente e grazie al progetto Arcipelago Pulito in Toscana e in Cilento dalla fondazione “Angelo Vassallo Sindaco Pescatore,” è stata ideata e avviata alla Camera la proposta di legge della deputata di LeU Rossella Muroni con lo scopo di incentivare i pescherecci alla raccolta dei rifiuti durante le normali attività di pesca in mare.
È importante anche la divulgazione per cercare di sensibilizzare le persone sulle terribili condizioni dei nostri oceani. Tra i vari documentari creati a tale scopo sicuramente delle pietre miliari sono “The End of The Line” di Rupert Murray, uscito in Gran Bretagna nel 2009 e “Troubled Waters” creato da due studenti, Matthew Judge e Robert Drane uscito nel 2015.