Mariam Al Ferjani

“Per me il cinema è la possibilità di controllare i sogni, che siano buoni o cattivi. Formarli, distruggerli, renderli più belli o terribili, questo potere che hai sul sogno, questo è il cinema. La direzione di un sogno.”

Questo è il cinema per Mariam Al Ferjani, trent’anni, regista, attrice, fotografa e tanto altro. Ha avuto grande riconoscimento per il suo ruolo da protagonista in La Belle et la Meute, in cui interpreta una ragazza vittima di stupro da dei poliziotti, costretta a confrontarsi con l’omertà di tutto il personale ospedaliero. Omertà è anche il titolo del suo cortometraggio con cui ha partecipato al FESCAAAL, dove l’abbiamo incontrata per parlare di lei e del suo cinema.

Come stai?

Non lo so, è una domanda per me esistenziale. Rispondiamo sempre “sì va bene”, la verità destabilizzerebbe l’interlocutore che te lo chiede. Si tratta di una domanda molto difficile, a volte sto bene, altre volte mi prende uno spleen assurdo.

Mi racconti un po’ il tuo percorso?

Sono venuta qui a causa di una missione di mio padre, per conto del governo tunisino. Prima studiavo medicina a Tunisi, poi quando nel 2012 mio padre è venuto qui ho deciso di rimanere, nonostante lui mi avesse detto di andare a Parigi. Ma io volevo rinascere in un posto nuovo e a Parigi già conoscevo un po’ di persone. Allora mi sono iscritta alla Civica di cinema Luchino Visconti. Avevo una gran paura di non essere presa, per via della lingua. Uno dei professori al colloquio di ammissione mi chiese del mio rapporto con l’Italia e io risposi che non era facile da dire, essendo qui da meno di un anno, ma lui non credeva che fossi qui da così poco. Ho avuto il voto più alto nell’esame di ammissione alla scuola, una bella soddisfazione.

Ci credo.

Parlare una lingua è come recitare, parlandola, si interpreta un modo. L’italiano è la mia sesta lingua, l’accento rimane, ma la padroneggio bene.

Ho letto che il tuo corto è stato girato nell’ambito della Factory. Mi racconti di che si tratta?

La Factory è un bando attraverso cui viene scelto un paese in cui si girano quattro cortometraggi e insieme diventano un lungometraggio che apre la Quinzane des Réalisateurs a Cannes e io sono stata tra i quattro registi presi. Ti viene affiancata una persona che lavora con te su regia e sceneggiatura (nel caso di Mariam si trattava di Mehdi Hamnane,ndr). Devi girare in cinque giorni e montare in cinque giorni. Solo che se hai un girato di cinque giorni a montare ci metti di più. Abbiamo cercato quindi di scrivere utilizzando una “scrittura montata”, che non necessitasse di troppi tagli. Già nel girato avevamo l’idea del prodotto finale. Il fatto è che non puoi sgarrare perchè è tutto molto organizzato, ci sono dentro le tre grandi case di produzione più grandi della Tunisia. La sfida qui è saper comunicare senza poterci lavorare troppo sopra.

Quali sono le cose su cui punti di più da regista sul set?

Per me è vitale il rapporto con l’attore. Prima che uno di loro vada “in scena” devo essere io l’ultima persona che vede. Può anche essere passato al trucco, per gli ultimi ritocchi, ma io devo essere l’ultima persona che vede in faccia. A volte ho truccato io stessa gli attori. Poi sono molto affezionata ad un metodo che chiamo “del triangolo”. Un attore non può pensare solo alle proprie battute e ripeterle in loop nella propria testa; deve vivere il momento, ascoltare bene ciò che il collega gli sta dicendo. Per questo io dico sempre: ascolta con le tue orecchie, rielabora con il tuo cervello e finalmente con la bocca dì la tua battuta (nel dirlo, Mariam crea un piccolo triangolo partendo dall’orecchio, andando fino alla cima della testa e scendendo fino alla bocca,ndr). In un’epoca frenetica serve richiamare all’ascolto.

Mariam entra un momento nel bar, siamo seduti sui tavoli esterni di un café in porta Venezia, e io rimango con Hesham Elsayed, un giudice egiziano di ventotto anni. Hesham è un appassionato di cinema e più in là nella serata e nei giorni successivi sarà lieto di farmi conoscere parecchi registi e attori dell’industria cinematografica egiziana, che scopro essere una delle più floride del nord Africa. Man mano che la serata andrà avanti, sono rimasta ammaliata dalla voglia e dalla capacità di trasmettere un senso di libertà, di tutte le persone conosciute grazie a Mariam: Bushra Rozza, attrice e organizzatrice dell’Elgouna Film Festival e giurata al FESCAAAL, Khaled Diab, regista di Induced Labour e molti altri. Sono sinceramente ospitali, nonostante toccasse a me fare da cicerone, vitali e goderecci.

Mariam alla presentazione del suo corto alla sezione MiWy del FESCAAAL

Tu sei conosciuta qui anche grazie alla tua interpretazione in La Belle et la Meute, un film che è una denuncia dell’omertà a cui i cittadini tunisini sono costretti per non avere problemi. Un tema quello dell’omertà, che torna anche nel tuo corto, in cui un gruppo di giovani non se la sente di andare alla polizia a denunciare la scomparsa di un amico, avendo in corpo alcol e erba. Cos’è cambiato in Tunisia negli ultimi tempi?

Seppure ci sia ancora molto da fare, dal 2011 ci stiamo man mano avvicinando ad uno stato di sempre maggiore libertà di espressione. Niente a che vedere con com’era prima, quando avevi paura persino a parlare con il tuo vicino. Sono e sarò sempre tra quelli che sopportano la crisi economica scoppiata nel 2011. Per noi è vitale imparare a vivere senza quella paura, che non è umana. Purtroppo ancora oggi fumare una canna può rappresentare un rischio. In molti però mi hanno chiesto se Omertà fosse un film sulla polizia o sulle canne. Non è così, è un film su delle reazioni umane, filmate da vicino, vissute. Reazioni che sono esasperate da un sistema che non permette di vivere rilassati, caratterizzato da un dispositivo di controllo molto subdolo. Così non è umano.

Chi rimpiange Ben Ali?

Chi è povero e ora lo è ancora di più, chi rimpiange perché è conservatore dentro, ma per fortuna non sono la maggior parte.

Durante gli anni della dittatura come facevano i registi ad aggirare la censura e continuare la propria arte?

Fino a pochi anni fa c’erano dei temi intoccabili, tra cui la politica. Penso che la maggior parte dei film che vediamo, anche se non ne parlano direttamente, contengono una dimensione politica. Impedendola, cosa lasci? Ne vengono fuori certe ridicolaggini. Costringi gli attori a parlare in un certo modo, i registi a filmare in un certo modo, a non dire certe cose e questo è molto pericoloso. In tutto questo però, se vogliamo trovare il lato positivo, spiccano gli escamotage utilizzati per aggirare la censura, perché si sa che l’arte ha sempre più risorse del potere. Si tratta di un esercizio stilistico, ma vorrei avere la libertà di scegliere se metterlo o meno in pratica. Se voglio dire le cose sottilmente, posso farlo, ma deve essere una mia scelta.

Molto interessante questa storia degli escamotage. Mi fai qualche esempio?

Ti dico qualche titolo che a me piace molto: Khorma di Jilani Saadi, un film del 2002. Un altro molto gustoso è La télé arrive di Moncef Dhouib, che ha criticato il regime in maniera molto buffa ed efficace, sottile. Lo prende in giro proprio perché il regime stesso non si fa prendere in giro, non so se mi spiego. Deridendolo, ne sottolinea le mancanze. La trama è basata sull’arrivo di un’emittente televisiva tedesca in un posto sperduto della Tunisia,il cui sindaco decide che questo paese deve trasformarsi in un luogo avanzato ed europeo, in soli tre giorni. Il concorso di circostanze fa sì che vada tutto a rotoli ed è divertentissimo. Un altro ancora è Sabots en or di Nouri Bouzid.

Ho notato grandi similitudini tra La Belle et la Meute e Omertà.

La Belle et la Meute è un film sulla violenza, sia fisica che verbale e del pensiero. Il sentimento ricorrente è quello universale della paura. La legge sta cambiando, ma rimane il terrore per la polizia che in teoria dovrebbe proteggerti e invece è persecutoria. Il consenso e la complicità di chi non vuole avere problemi sono la cosa peggiore, annientano qualsiasi spiraglio di umanità. La voglia di libertà e la derisione di questo modo di vivere sono tratti salienti del mio carattere. Sicuramente è in qualche modo legato all’essere tunisina, ci ho vissuto ventidue anni dopotutto, ma non necessariamente. Sono proprio io.

Donne e Tunisia. Com’è la situazione?

Devo dire che mi sta stretto questo maschilismo a cui veniamo sempre associati. C’è dappertutto! Prendo l’esempio de La Belle et la Meute, nel film la protagonista vince, supera le avversità. Il film stesso è un inno alla forza delle donne. La protagonista subisce una disgrazia, ma va oltre la status di vittima. Per fortuna le cose stanno visibilmente migliorando.

Una nuova legge, approvata da non molto, sancisce l’uguaglianza nell’eredità. Questa legge è stata criticata perché anticoranica. Nel Corano infatti è scritto che al figlio maschio spettano i due terzi dell’eredità e alla figlia femmina un terzo. Un’altra legge molto positiva è quella che permette ad una donna tunisina di sposarsi con un uomo non musulmano senza che per questo lui debba convertirsi all’Islam. Era una semplice formalità, ma restava una scocciatura insensata. Detto questo, noi fummo avanti su molte cose. La Tunisia fu il primo paese ad abolire la schiavitù in tutta la regione; il primo che ha dato libertà di culto. La donna tunisina ha avuto il diritto di voto prima della donna svizzera. Il diritto all’aborto è indiscutibile, in vigore dal 1965 (in Italia dal 1978,ndr). Non siamo un paese di gente che va sui cammelli o di terroristi, c’è di tutto. Tarrant era bianco no? Era fondamentalista? Sicuro.

Cosa ami di più e cosa detesti di più in generale?

Nella vita? Quello che amo di più è stare bene, tranquilla, di buon umore. Non succede sempre ma quando succede mi piace. Mentre l’ingiustizia è la cosa che mi fa arrabbiare di più. Ogni tanto sono un po’ impulsiva nei miei giudizi, ma se vedo un’ingiustizia posso non essere diplomatica.

Cosa ti piacerebbe dicessero di te come regista?

Una poetessa. Mi piacerebbe che dicessero che sono una poetessa.

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