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Contatto, cambiamento, Chiesa e confronto: “quattro C” per abbracciare Corviale — il celebre palazzone razionalista alla periferia di Roma — andando oltre la solita retorica dell’abbandono delle periferie.

Da diversi anni alcune periferie sono diventate le aree urbane più chiacchierate d’Italia. Le Vele di Scampia, lo Zen di Palermo, Tor Bella Monaca a Roma, Quarto Oggiaro a Milano, sono solo i nomi di punta di un elenco che col tempo ha sempre più spettacolarizzato le privazioni, le vulnerabilità e le difficoltà della vita quotidiana di chi abita in quei quartieri, fino a portarle all’esasperazione sul grande e piccolo schermo — è così che siamo arrivati a seguire con passione l’ascesa e il declino di Ciro “L’immortale” in Gomorra. Il “problema delle periferie,” entrato con estremo ritardo nelle agende politiche nazionali, col tempo è riuscito anche a mobilitare la fede cattolica, con le visite di Papa Bergoglio alla “Trecca” di Milano e al Corviale di Roma, facendoci però dimenticare in fretta un punto chiave: quando furono costruiti, tutti quei casermoni in cui eviteremmo volentieri di vivere rispondevano all’esigenza abitativa di migliaia di famiglie.

Erano le famiglie numerose degli anni ’70 e dei primi anni ’80, della working class che cercava un tetto alla portata delle sue tasche, con uno Stato che – inconsapevole degli errori poco prevedibili che avrebbe commesso – si era già adoperato col Piano INA-Casa, dal 1949 al 1963, e poi con la Legge 167 del 1962, promulgata per istituire le “case popolari.” Erano le famiglie personificate da Pippo Franco e Anna Mazzamauro in Sfrattato cerca casa equo canone, film di bassa lega del 1983 che narra le peripezie di un paterfamilias cassintegrato alla ricerca di un alloggio, tra cui anche un appartamento al Corviale, il “serpentone” di Roma da tempo sotto l’attenzione di tutti (istituzioni, associazioni, università e ricercatori curiosi e impiccioni come me).

Questo contributo si addentra tra le mura di quel palazzo, lungo 1 chilometro, con un obiettivo ben preciso: non proseguire nella solita retorica sull’abbandono delle periferie, ma anzi individuare, nella maniera più oggettiva possibile, le contraddizioni più profonde e poco visibili in superficie, insieme agli effettivi punti di forza di un luogo che è la quintessenza di quell’abbandono istituzionale che oggi si sottolinea spesso nei dualismi élite vs popolo o radical chic vs italiani veri.

Per raggiungere gli obiettivi di questo reportage evitando un racconto verboso, occorre un punto di osservazione ben preciso: analizzare Corviale con gli occhi di un milanese, che negli anni ha visto, da studioso ma soprattutto da cittadino, i mutamenti e le trasformazioni delle periferie della propria città, confrontandole con il più complesso contesto romano, attraverso “quattro C”: contatto, cambiamento, Chiesa e confronto.

Il primo contatto con il complesso edilizio di Corviale parte dai suoi frammenti urbani

Contatto

Lo sguardo su Corviale con gli occhi di Milano è determinato da un contatto duplice. Il primo è quello con Aldo Feroce, fotografo conosciuto nella “suburbia” romana, in un’assemblea pubblica a Castelnuovo di Porto (il decreto sicurezza ha fatto chiudere un CARA). Feroce è una persona nota a Corviale e conosce bene il suo microcosmo, e non esita ad avvertirmi che di sociologi, in quel quartiere, se ne vedono ancora troppo pochi: “Architetti sì, ma sociologi mica tanto…” La mia risposta è scontata: “Allora se sei disponibile vengo io e ci facciamo un giro domani mattina.”

Al contatto umano che mi offre l’opportunità di addentrarmi a Corviale senza l’inadeguatezza di chi va a ficcare il naso nelle case e nelle problematiche degli altri, si allinea un contatto analitico insito nel dualismo Roma-Milano. Le due più grandi città italiane appaiono sempre più distanti: se Roma fatica a gestire trasporti, rifiuti, manutenzioni stradali, Milano innalza grattacieli, stimola bilanci partecipativi e attrae investimenti e capitale umano. La differenza è notevole anche nelle periferie: la compattezza di Milano si oppone allo sprawl dello sterminato territorio romano, non urbanizzato per due terzi, la rete di trasporti che mantiene le più celebri periferie milanesi a non più di mezz’ora di distanza dal Duomo contrasta con le numerose borgate diversamente distanti dal foro romano. Due diverse velocità attraversano le periferie di Roma e Milano, e di conseguenza gli “occhiali” milanesi con cui osservare il razionalismo di Corviale devono giocoforza tenere in considerazione il costante traffico di idee e progettazioni che attraversa il capoluogo lombardo, con l’inerzia romana che cerca di rigenerare Tor Bella Monaca senza accorgersi che nuove forme di povertà stanno emergendo al di fuori dell’enorme perimetro romano, nei luoghi come Castelnuovo di Porto, teatri di nuove polarizzazioni sociali. Questo duplice contatto umano e analitico getta le fondamenta per addentrarsi nel Corviale, dove tutto sembra in un continuo mutamento incapace di ricostruire un tessuto sociale urbano.

Una dimensione chilometrica

Cambiamento

Se dovessi individuare un elemento che ha influenzato il mio interesse per Corviale, non troverei nessun riferimento a report, articoli scientifici o divulgativi, inchieste televisive, documentari. Oltre a Pippo Franco, un ruolo chiave l’ha giocato l’ormai chiacchieratissimo Achille Lauro, che nelle sue precedenti narrazioni dove “d’inventato c’è niente”, ha saputo fornirmi una versione densa e al contempo dimessa e tutt’altro che spettacolarizzante dello spaccato di vita al Corviale (guarda il video di WOW), come lui stesso mi raccontò due anni fa. Fortificato da questo patrimonio, l’incontro con Aldo Feroce è un’immersione tra le voci nascoste di un complesso edilizio messo sotto la lente d’ingrandimento. La biografia di quell’edificio attiva velocemente il mio occhio milanese, portandomi a una rapida quanto dirompente evidenza: un edificio di architettura razionalista come Corviale a Milano non esiste, ma quello che più sorprende è la mancanza di un tessuto sociale solidificato dalla condivisione quotidiana della fragilità urbana. Ed è qui che Aldo mi svela i coni d’ombra di un mondo quasi fatato, che giornali e sguardi superficiali sul quartiere nascondono completamente:

“C’è una biblioteca, che non c’entra niente coi ragazzi del Corviale; chi ci studia non vive qui. Nella via antistante c’è il Mitreo, un centro d’arte moderna che se ne sta per i fatti suoi. Poi c’è il calcio sociale, e lì non ti dico la grande messinscena: sono arrivati qui, si sono presi anche dei finanziamenti, e mai una volta che abbiano davvero incluso i ragazzi del Corviale.”

Sono opinioni, ma opinioni disinteressate: Aldo non è un attivista in senso pratico e critico, al di là del racconto per immagini delle fragilità del Corviale non nutre altri obiettivi, anzi, quando mi racconta che ci sono ancora troppi pochi sociologi ad occuparsi del quartiere intende incontrare sguardi meno superficiali di quelli delle varie attività approdate a scaglioni nella zona. Quando ci addentriamo per i tortuosi corridoi, mentre due guardie mediche ci chiedono come raggiungere il nono piano della Scala A, Aldo mi racconta del “Quarto Piano”, che inizialmente andava destinato alle attività di inclusione sociale. A più riprese, l’informalità accompagnata all’illecito, ha portato nel quarto piano una serie di famiglie che si sono attrezzate per il loro alloggio fai-da-te. Il Quarto Piano è la massima espressione dell’abbandono civico-istituzionale dell’area. Nel frattempo, mi racconta delle altre famiglie in attesa di essere regolarizzate. Contarle, in questa sede, è superfluo. Basti sapere che in 1 chilometro sono stipati circa 6000 abitanti. Parlare di cambiamento in questo luogo significa affrontare le trasformazioni che hanno cronicizzato le diseguaglianze. Per la rigenerazione urbana occorre aspettare.

Chiesa

Aldo mi porta in un luogo chiave: la Fraternità dell’Incarnazione, “consultorio” religioso che dal 1992 è insediato nel primo lotto del Serpentone, un luogo che si trova effettivamente in mezzo alla gente, inaugurato da un sacerdote e un seminarista, dove mi accoglie un don proattivo, che ascolta con interesse anche il racconto della difficile realtà di Castelnuovo di Porto, che ha permesso l’incontro fra me e Aldo. Mi intrometto in un dialogo fra una ricercatrice dell’Università Roma Tre, che gestisce un laboratorio di ricerca collocato nel lotto esterno al Serpentone, un fotografo, e due parroci. La “capacità di aspirare” – termine preso in prestito dall’antropologo Arjun Appadurai – si tocca con mano, e per me è qualcosa di sorprendente che mi porta a sottolineare con forza un’evidenza lasciata eccessivamente in secondo piano. Confrontando per un momento Corviale con il “quartiere popolare” Gratosoglio – area d’indagine con gli studenti del Politecnico nei corsi in cui svolgo assistenza alla didattica, prima dei riflettori su Mahmood – individuo un elemento comune: il Parroco.

Religione con vista agro-romana

Don Giovanni Salatino a Gratosoglio è figura ben nota anche alla stampa, ma nessun articolo riesce a descrivere con precisione l’impatto e la profondità della sua conoscenza dei ragazzi di un quartiere multiculturale ancora troppo ancorato a scomode “ghettizzazioni.” Allo stesso modo, Don Gabriele è descritto da Aldo come “la migliore persona che abita a Corviale.” Da questo binomio prende forma in me un pensiero che ora mi porto appresso: sottovalutiamo il ruolo che la Chiesa e la religione giocano nelle periferie. Eppure, la loro importanza è lampante. Gli oratori sono ancora oggi luogo di inclusione, anche multiculturale. In uno scambio di battute, l’urbanista Arturo Lanzani, del Politecnico di Milano, mi esortava a ricordare come nei piccoli centri “di cintura”, dei vari hinterland poi diventati metropolitani, per molti decenni, dal dopoguerra, la Chiesa ha sempre svolto importanti funzioni di socializzazione, di servizi alle famiglie, di svago per i più piccoli. Mi pare che questo elemento resti troppo isolato nell’ormai lungo dibattito sulla rigenerazione urbana.

Non servono eserciti di sociologi, urbanisti, architetti, antropologi, politici, “animatori sociali” o esperti di varia natura, se prima non abbiamo bene in testa chi siano gli attori che agiscono nella quotidianità delle pratiche, degli usi dello spazio “impoverito” di un quartiere che attende un miglioramento. I casi di Corviale e Gratosoglio ci mostrano come i parroci siano attori di questo miglioramento, e non agenti esterni che – pur mossi da nobili intenzioni – lavorano “per progetti,” per obiettivi, per accordi inter-istituzionali. In questo quadro, credo sempre più fermamente che vada riconosciuto il ruolo della funzione religiosa, e un altro contesto, come il discriminato “kaleidoscopio napoletano” — termine adottato dal professor Giovanni Laino (Università di Napoli Federico II) — può offrire conferme in tal senso, così come — ancora una volta — l’estetica narrativa di Achille Lauro: “Dio ti prego salvaci da questi giorni, metti da parte un posto e segnati sti nomi” (“Barabba II”).

Confronto

La mia visita al Corviale procede fra incontri con i laboratori artigianali, osservazioni degli spazi esterni costretti all’abbandono nelle more del difficile dualismo formale-informale, che ha portato alla chiusura di un mercato — abusivo — nell’arena antistante al Serpentone. Mentre l’area che dà le spalle al complesso edilizio vive un abbandono ancora più pronunciato: sembra il retrobottega mal tenuto di una villa monofamiliare. L’auto bruciata, l’area di spaccio, l’arena sottoutilizzata, il poliambulatorio, il lunghissimo corridoio che va di lotto in lotto. Uno scenario mai visto a Milano. L’esercizio di vedere Corviale con gli occhi di Milano implica un focus sulla periferia romana con la consapevolezza del grande serbatoio acquisito dal capoluogo lombardo in questi anni, perché mentre incendi, sfratti e arresti interessavano il complesso “popolare” di Giambellino, l’associazione culturale Dynamoscopio lanciava l’archivio di conoscenza prodotta sull’area Giambellino-Lorenteggio. A Milano la moltitudine di risorse in gioco non si conta nemmeno più: c’è una particolare attenzione sulle periferie. Ovviamente, non esistono formule esatte per risolvere problemi che hanno una lunga storia, ma il flusso di conoscenze sembra quasi inarrestabile. A Roma la situazione non è dissimile, ma sembra piuttosto soggetta a lente inerzie istituzionali che portano il presidente regionale Zingaretti al Corviale con estremo ritardo.

Luoghi dell’abbandono nel “backyard” di Corviale

Il confronto Roma-Milano non ha nulla di valutativo, non guarda all’efficacia delle rigenerazioni, o al grado di vulnerabilità delle popolazioni, poiché sarebbe solo altra brace su un fuoco alimentato da diseguaglianze messe costantemente a confronto. La lente su altre periferie a partire da una conoscenza di Milano serve per capire che oltre agli indici che misurano la segregazione spaziale o residenziale, oltre all’oculata costruzione di progetti di riqualificazione, occorre lo studio approfondito di un tessuto sociale locale molto forte seppur silenzioso e parzialmente negato: al Corviale è la condizione “da alveare” di tante famiglie a passare in primo piano, a dispetto di una realtà dove Aldo, attraversando solo uno dei quattro lotti, saluta in fretta signore e artigiani del posto affondando rapidamente in questioni biografiche. Portare alla luce queste dimensioni oggi è fondamentale, per costruire un nuovo ordine del discorso sulle pratiche quotidiane poco visibili capace di affiancare il dibattito sulle periferie, sia accademico che divulgativo.

In questo senso, gli occhi di Milano rischiano di compiacersi con la recente logica del “Modello Milano,” un innovativo guazzabuglio che mette insieme i progetti su larga scala a trazione privata, il city-branding che rimanda a NoLo e i nuovi piani per le Periferie, dove talvolta svolgono un ruolo fondamentale gli sviluppi infrastrutturali: basti pensare al legame tra la trasformazione di Giambellino e il prossimo arrivo della M4. Un modello che, sia chiaro, funziona ed è al passo coi tempi, ma che obbliga a interrogarsi sulle complessità esperite invece nel resto d’Italia, a partire dal caso eclatante della Capitale e della città più significativa del Paese. Con la sua struttura razionalista, Corviale permette inoltre un ragionamento capace di intrecciare una pluralità di discipline in un unico complesso edilizio, un teatro per poter ripensare il razionalismo di Le Corbusier, con la speranza di rendere “funzionali” quelle periferie urbane, ormai inglobate in un più ampio processo di urbanizzazione che — come di recente ha evidenziato il sociologo Agostino Petrillo nel suo ultimo libro La Periferia Nuova — ne ha sfumato la stessa localizzazione periferica, senza però superarne l’accezione ancora eccessivamente negativa.


Lorenzo De Vidovich è dottorando in Urban Planning, Design and Policy al Politecnico di Milano. Seguilo su Twitter.