5 cose che il Pd di Zingaretti deve dire per non essere finto
Tassare i ricchi, rilanciare il visto umanitario europeo, proporre lo stipendio minimo legale, fermare la secessione dei ricchi e smettere di essere un partito sessista.
Tassare i ricchi, rilanciare il visto umanitario europeo, proporre lo stipendio minimo legale, fermare la secessione dei ricchi e smettere di essere un partito sessista.
Nicola Zingaretti è il nuovo segretario del Partito democratico. Le primarie si sono tenute ieri e hanno visto la partecipazione inattesa di circa un milione e ottocentomila votanti. Il governatore del Lazio ha vinto con una percentuale altissima — che secondo gli ultimi dati dovrebbe sfiorare il 70%. Sembra essere ormai conclusa la stagione del renzismo, incarnato in queste primarie dalla testa di legno Giachetti e in parte da Martina, che si sono fermati intorno al 24 e al 12%.
Il sentimento generale che ha portato all’elezione di Zingaretti è stata l’esasperazione per una stagione politica e una classe dirigente vista come logorata e logorante — fallimentare per il centrosinistra italiano. L’esasperazione, però, non basta a rifondare un partito che ha seriamente rischiato la sparizione dopo le elezioni dell’anno scorso. Per tornare a significare qualcosa, il Pd — che resta il primo partito del centrosinistra italiano, per autoproclamazione e effettiva partecipazione — deve tornare a dire qualcosa di sensato e di sinistra.
Ad esempio: dichiarare che la propria prima azione sarà andare in visita ai cantieri della TAV, al di là delle opinioni che si possono avere sull’opera, non è proprio quanto di più indicato potesse venire in mente a un segretario eletto. Le priorità di un leader di centrosinistra che voglia costruire qualcosa e ricostruire un partito dovrebbero essere altre. Ecco qualche esempio:
TASSARE I RICCHI
Negli ultimi mesi la parola “patrimoniale” è tornata timidamente ad affacciarsi nel dibattito pubblico italiano, dopo essere stata soppressa da due decenni di berlusconismo e dagli sproloqui sulla “flat tax” di Salvini. La tassa patrimoniale è semplicemente una forma di tassazione imposta sul patrimonio, sui soldi in banca. In Italia, una tassa del genere sarebbe molto opportuna: nel nostro paese le famiglie tendono a risparmiare molto più che all’estero, accumulando una grande quantità di capitale. Secondo alcuni dati della Banca d’Italia, nel 2016 le famiglie hanno una ricchezza netta media di circa 206mila euro, ma la distribuzione è molto diseguale: il 30 per cento più ricco possiede il 75 per cento del patrimonio netto (510mila euro) mentre il 5% più ricco possiede in media 1,3 milioni di euro.
Inoltre, una tassazione progressiva sul patrimonio sarebbe molto più redistributiva di una tassazione, ad esempio, che va a colpire il lavoro e i consumi. Dovendo scegliere se alzare l’IVA o istituire una patrimoniale, un partito di centrosinistra dovrebbe scegliere senza alcun dubbio la seconda ipotesi, visto che l’aumento dell’IVA colpirebbe soprattutto le persone per cui fare la spesa o comprare un paio di scarpe nuove non è sempre facile.
Zingaretti, durante il confronto televisivo prima delle primarie con Martina e Giachetti, ha dichiarato di non avere nel suo programma l’introduzione di una tassa patrimoniale — non sarebbe male se cambiasse idea.
SUPERAMENTO DELLA LOGICA DELLA PAURA
Il nuovo Pd non nasce con grandi prospettive di integrazione in People, la piazza dello scorso fine settimana a Milano. Nella mozione di Zingaretti c’era anche l’ex ministro Minniti, una persona non grata per le anime del centrosinistra che questo rinnovato Partito dovrebbe ambire a riconquistare.
Il partito ha bisogno di muoversi in senso diametralmente opposto: è evidente che una condanna diretta delle politiche di Minniti — e Gentiloni — non può avvenire. Si può affrontare il fronte da un punto di vista completamente nuovo, azzerando la posizione del partito e presentandosi implicitamente come altro rispetto alle puntate precedenti.
Una proposta che potrebbe scardinare sia le posizioni ultranazionaliste del governo che l’abbottonata crudeltà dell’Unione Europea è quella di un visto umanitario europeo, a cui si possa accedere con facilità e rapidità, e che permetta il libero spostamento all’interno dei paesi dell’Unione. Una proposta che andrebbe portata avanti con decisione in vista delle elezioni europee.
L’idea del visto umanitario europeo, vista nel contesto della politica italiana attuale sembra quasi estremista, da movimenti di sinistra extraparlamentare. Al contrario, invece, la proposta originaria arriva proprio dal Parlamento europeo, che aveva chiesto a Commissione e Stati membri un impegno serio per costruire un meccanismo sicuro per i richiedenti asilo. La proposta, che è avanzata fino allo scorso dicembre, è stato uno dei rari casi nell’ultimo anno che ha visto la maggioranza italiana spaccata a livello europeo.
UN JOBS ACT AL CONTRARIO
Ricapitoliamo — con il Jobs Act, tra il 2014 e il 2015, Renzi è riuscito in quello che nemmeno Berlusconi era riuscito a fare: abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che imponeva il reintegro in azienda in caso di licenziamento senza giusta causa. Come in materia di politiche per i migranti, chiedere un disconoscimento delle politiche dei precedenti governi a guida Pd è impossibile. Quello che si può fare, di nuovo, è resettare la retorica — proponendo un nuovo accordo sul lavoro, che parta dalle realtà sindacali e dalle necessità degli ultimi, dai braccianti che lavorano a tre euro all’ora.
Se c’è un fronte su cui spendere la parola “sicurezza,” è questo — sicurezza nelle condizioni in cui si lavora, sicurezza economica data da contratti più stabili e pagamenti più dignitosi. Se il Partito democratico vuole essere il partito di chi lavora deve dimostrare che sappia che serve difendere la dignità di chi lavora. Si potrebbe, ad esempio, pensare a misure per semplificare i contratti in direzione opposta di quanto fatto finora — pensate se qualcuno proponesse di abolire i tirocini — in favore di contratti sicuri, che diano a persone under 35 la speranza di uscire di casa con le proprie gambe. Per un partito che è in forte difficoltà nel ritrovare un’anima e un bacino elettorale, è difficile pensare a una categoria meno difesa dei lavoratori dipendenti e precari. Un primo passo, fondamentale: mettere lo stipendio minimo legale al centro della comunicazione del Pd.
FERMARE LA SECESSIONE DEI RICCHI
Una larga parte del Pd, che faceva capo generalmente agli amministratori del nord Italia, hanno sostenuto attivamente e avidamente il progetto di autonomia regionale portato avanti dalla Lega. Giuseppe Sala di Milano, Giorgio Gori di Bergamo, il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini si sono votati alla causa autonomista, al “prima il nord!”
In un articolo dello scorso 16 febbraio abbiamo fatto notare come la prospettiva di una maggiore autonomia dei governatori regionali sia in realtà un cavallo di troia per una “secessione dei ricchi,” che — nella loro ottica — potrebbero finalmente liberarsi del fardello delle regioni più povere del paese e vivere felici nella loro piccola grande Svizzera subalpina.
Si può comprendere perché agli amministratori locali Pd del nord Italia questa prospettiva — che vuol dire semplicemente più soldi — faccia gola anche se ci si definisce progressisti. Questa deriva leghista, però, va fermata con grande decisione dai vertici del partito, visto che è contraria a tutto quello che il Pd ama definirsi — progressista, egualitario, inclusivo, eccetera. Senza anche fare troppi proclami, bisogna senza dubbio opporsi a un provvedimento basato su razzismo strisciante e opportunismo, ricordando anche agli amministratori del nord che il mondo non finisce al cortile di casa propria.
SMETTERE DI ESSERE UN PARTITO SESSISTA
Prima della prima fase delle primarie avevamo intervistato Dario Corallo, il candidato “giovane” di questa tornata elettorale. Corallo ci aveva dichiarato che, se fosse diventato segretario, avrebbe fatto quanto in suo potere per tamponare il sessismo imperante all’interno del Pd.
Corallo ha preso meno dell’1% alle elezioni, ma il problema indicato da lui è serissimo. Il principale partito progressista italiano è un campo minato per la militanza femminile. In queste primarie le questioni di genere non sono nemmeno state sollevate, e l’unica candidata donna, Maria Saladino, ha ottenuto un risultato irrilevante, simile a quello di Corallo. L’altra donna presente nella contesa era Anna Ascani, la cui vicenda politica è stata ancora più sconcertante: ufficialmente in ticket con Giachetti — e quindi, in teoria, di livello uguale al suo partner — è stata sistematicamente ignorata sia dalla stampa che dalla sua mozione. Al confronto televisivo pre-elettorale, ad esempio, non era nemmeno presente, e a nessuno è manco venuto in mente di provare a non essere sessista e chiedere il perché.
Se Zingaretti vuole che il suo partito sia davvero inclusivo e unitario deve prendere misure drastiche perché non sia un ambiente tossico e repressivo verso quella che è a tutti gli effetti una minoranza svantaggiata composta dal 50% della popolazione.