I C’mon Tigre raccontano Racines, tra misteriosi sintetizzatori e sonorità anni Novanta
Abbiamo intervistato i C’mon Tigre, di cui è appena uscito il secondo album, intitolato Racines.
foto di copertina di Marta Clinco
Abbiamo braccato i C’mon Tigre in occasione della data milanese di giovedì sera in Santeria Social Club – seconda tappa del tour inaugurato al TPO di Bologna.
A più di quattro anni dall’uscita del primo album, C’mon Tigre, la misteriosa band italiana presenterà il secondo disco appena uscito, Racines. Ci hanno raccontato di strani sintetizzatori a tracolla, di tempi in 4/4 e degli anni Novanta, ma soprattutto del loro approccio compositivo e artistico, e di cosa si nasconde dietro l’idea e la produzione del loro ultimo lavoro.
Finalmente dopo quattro anni dal primo eponimo tornate con un nuovo disco, Racines. Perché ci avete fatto aspettare tanto?
Non è un tempo così lungo per noi, ci mettiamo solitamente molto a scrivere. Il periodo di gestazione del disco ha preso circa quattro anni, abbiamo deciso di non accavallare le cose: alla fine del ciclo e del tour del primo disco abbiamo iniziato a lavorare al secondo. Per noi pensare di concludere un album in meno di due anni è impensabile. Ci prendiamo diverso tempo per riascoltare a freddo i brani, componiamo molto all’inizio, poi lasciamo decantare, ci torniamo su, e così via. Non abbiamo un vero e proprio approccio da studio, ci siamo creati uno spazio in cui poter lavorare di nuovo sui brani in qualsiasi momento.
In fase di registrazione lavorate con analogico o digitale?
Lavoriamo principalmente col digitale, anche se non esclusivamente: alcune batterie sono state registrate in analogico. Abbiamo come metodo la libertà di rieditare e ribaltare i brani, e con l’analogico questo sarebbe impossibile: prevede una concezione di brano molto precisa, mentre noi procediamo per appunti quasi fino alla fine, e capita che le prime bozze resistano fino al master. Siamo molto appassionati di strumenti che hanno una loro storia, anche di lunga data, che si percepisce nel momento in cui vengono suonati, una percezione anche tattile legata alla meccanica, ai materiali, alla fisicità. Molti di questi sono analogici, molti sono vecchi sintetizzatori — è qualcosa che va oltre la fascinazione per l’analogico e trova motivazione proprio in queste caratteristiche che mancano al digitale: è affascinante l’idea di mettere mano su uno strumento che anche solo banalmente dal punto di vista anagrafico vive e resiste molto più a lungo di noi. Il digitale tuttavia ci permette la concentrazione di cui abbiamo bisogno sui brani, mentre l’analogico impone dei limiti che non vogliamo avere.
Già nel primo album le collaborazioni con artisti di vario genere erano tantissime. Cosa è accaduto in Racines?
Molte collaborazioni sono le stesse del primo album, per un discorso di affezione — di famiglia. Quando riesci a ottenere quello che cerchi è difficile poi andare a ricercarlo altrove. In Racines comunque abbiamo effettivamente allargato un po’ la maglia e tirato dentro qualcosa di nuovo, che ci sarebbe servito per raccontare meglio la storia dell’album. Teniamo al fatto che la musica diventi protagonista, rispetto anche alle idee iniziali che avevamo: proviamo a scegliere le nuove collaborazioni soprattutto in base alla piega che prende la dimensione compositiva dei brani e del disco stessi. Alcune di queste non avrebbero avuto senso né avrebbero trovato spazio prima di questo momento: in Racines abbiamo aperto molto a sonorità hip hop e anni Novanta assenti nell’album precedente.
Quindi quali sono le principali differenze tra il primo e il secondo album?
L’attitudine e l’approccio creativo sono gli stessi, arricchiti delle esperienze raccolte portando in giro il primo disco e stringendo ulteriormente i rapporti con i musicisti con cui suoniamo tutt’ora dal vivo. Abbiamo iniziato a comprendere alcuni input che arrivavano anche live da alcuni brani di quel tour – input che ci hanno dato poi fornito il punto di partenza per approcciare in maniera differente il nuovo lavoro. Abbiamo mantenuto la nostra matrice distintiva, integrandola con sintetizzatori, soluzioni ritmiche più matematiche e inquadrate, rendendo le sezioni free più relegate a momenti specifici e definiti. Il primo disco era frutto di appunto di viaggio nel presente, mentre Racines è il recupero di una nostra memoria più lontana. Musicalmente abbiamo ripescato una memoria musicale di una ventina d’anni fa, gli anni Novanta, che poi è quella con cui siamo cresciuti. Quel periodo ha preso posto nel disco sotto forma di tempi in 4/4 (contrariamente ai 7/8 e 5/4 del primo), sincopati, con il risultato di quella che secondo noi potrebbe essere una musica più da club, più ballabile – al di là di ogni lecita obiezione a riguardo, e secondo quella che è la nostra soggettiva e personalissima attitudine al club. Abbiamo sentito l’esigenza di semplificare, verso una direzione ritmica che fosse più spontanea.
Racines va a mettere radici anche nella parte testuale del lavoro: le storie raccontate all’interno del disco sono di fantasia e non autobiografiche, fatta eccezione per un paio, e vanno a descrivere gli archetipi dell’essere umano e della sua natura: passione, ossessione, libertà, morte, caducità della vita, bellezza.
Ciò che fate è difficilmente ascrivibile a un genere ben preciso, soprattutto nel panorama musicale italiano. Se doveste, come lo raccontereste?
Ciò che facciamo è principalmente frutto delle esperienze di ascolto di entrambi, che negli ultimi anni hanno spaziato e aperto a sonorità e a spazi che non pensavamo e non eravamo certi di poter abbracciare e occupare. L’inserimento non è legato a qualche genere in particolare, c’è un attingere anche da microparti e microstrutture sonore e ritmiche degli artisti più vari. Ma per parlarne ci vorrebbe troppo tempo e questa sera dovremmo suonare…
Hai ragione, dimenticavo. Per quanto riguarda invece il vostro procedimento compositivo, oltre a essere di gestazione molto lunga, come si struttura generalmente?
Solitamente iniziamo componendo in due, creiamo dei nuclei partendo da una base ritmica, fase in cui siamo molto prolifici. Iniziamo poi a palleggiarci le cose, a selezionare suoni, cellule ritmiche, e da lì capiamo come il brano potrebbe evolvere. Dal punto di vista timbrico siamo molto affezionati alle prime take, nell’ottica di preservare il valore emotivo della scrittura legata a un momento specifico piuttosto che a un altro, dell’intenzione primaria. Anche se si tratta di parti che all’ascolto risultano sporche, spesso proprio a quella sporcizia ci affezioniamo, e finisce per diventare la pasta sonora vera del pezzo, su cui poi costruiamo il resto. Ci siamo resi conto che più che togliere e semplificare è difficile sostituire: quando l’approccio non ha aspettative è tutto molto libero, ma poi si creano subito delle sovrastrutture e molto spesso risulta appesantito. Preferiamo allora fare un passo indietro, magari a scapito della pulizia sonora.
C’è di buono che con gli strumenti accumulati negli anni anche le registrazioni iniziali in genere hanno una pasta sonora che di fatto ci piace. Da lì poi, riascoltando, ragioniamo per suggestioni e suggerimenti e prendiamo appunti. Ad esempio, prima degli interventi dei fiati tendiamo ad appuntarci delle linee melodiche armonizzandole anche vocalmente, e questo è uno dei motivi per cui i nostri fiati suonano saturi e vecchi – rimane sempre questa voce sotterranea di substrato, molto satura, fa il verso ai fiati e in qualche modo li completa. È la parte che appartiene maggiormente alla genesi della composizione e che resiste fino alla fine.
A livello di strumenti, c’è qualcosa di particolare che avete utilizzato per Racines?
Abbiamo inserito in alcune parti in arrangiamento un claviolin, un protosynth molto semplice anni ‘40/’50 che veniva posizionato sotto il pianoforte, così il pianista aveva la possibilità di simulare, oltre a quella di piano, linee di vari altri strumenti. Si tratta di un synth monofonico con un amplificatore valvolare connesso. Un altro è il Liberation della Moog, un synth polifonico a tracolla, il tentativo degli anni ’70 di liberare il tastierista dalla schiavitù dell’immobilità. Non ha avuto un gran successo, forse dovuto al peso eccessivo… Prima o poi troveremo il coraggio di portarlo ai concerti. In ogni caso suonare strumenti come questi dà qualcosa che è difficile ricreare nel digitale, qualcosa che racchiuderei nel concetto molto ampio di identità.
Perché la scelta della lingua inglese e quali sono i vostri progetti per l’estero?
Questo disco è prodotto dall’Italia, ma è una produzione spalleggiata da !K7, nota etichetta berlinese che nel corso degli anni ha assorbito diverse interessanti altre strutture come la Strut Records, etichetta che produce storicamente la musica proveniente dall’Africa. Ci sono subito sembrati dei partner perfetti per questo nostro lavoro. Il disco è distribuito in tutta Europa, e partiremo per un tour molto intenso. È un progetto che non ha senso confinare in Italia. L’idea era di esplorare anche altre aree linguistiche ma non ne abbiamo ancora avuto il tempo e la concentrazione necessari. Abbiamo scelto un linguaggio che fosse riconosciuto e metabolizzabile da tutti proprio perché non apparteniamo a un mercato preciso e limitato.
Parliamo della forma editoriale del nuovo disco, che uscirà su doppio vinile corredato da una serie ricchissima di artwork di diversi artisti.
Anche questo si ricollega al discorso delle radici. Quasi a chiusura disco ci siamo resi conto del fatto che i brani fossero molto visivi, e avendo stretto nel corso degli anni rapporti di amicizia molto profondi con tante persone coinvolte nel mondo dell’arte visiva ci siamo proposti – e abbiamo proposto ad alcuni di loro – di rappresentare i brani visivamente in modo da amplificare la storia e darle anche un immaginario concreto. Da lì è partito un lavoro piuttosto denso, dato dalla difficoltà di rapportarsi sì con amici, ma con dieci artisti diversi, con approcci differenti. È stato difficile ma ce l’abbiamo fatta, siamo molto soddisfatti del risultato.