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Lo scopo dell’autonomia regionale è una vera e propria “secessione dei ricchi.” E le regioni, negli ultimi vent’anni, non hanno fatto niente per meritarsi tutto questo potere.

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Nel corso degli ultimi vent’anni le regioni sono stati di gran lunga i corpi medi tra stato e cittadini che più hanno prosperato: hanno espanso le proprie competenze, il proprio giro d’affari, la propria autorità. Non è andata così bene agli altri enti locali: soprattutto alle province, che sono state prima accusate — a torto — di essere la causa di tutti i mali del paese, e poi semi-soppresse. E non è andata così bene nemmeno ai comuni, che più di tutti hanno sofferto i rigori della crisi e dell’austerità. I timori dei comuni riguardo l’autonomia regionale sono stati espressi da Sala in questi termini: “Leggo presidenti delle Regioni che chiedono più autonomie e risorse che dicono che le Regioni del Sud non saranno penalizzate: ma la moneta non si stampa, quindi se non si penalizzano loro a chi toccherà, ai Comuni?”

Questo ruolo sempre più da protagonista nella vita politica del paese è dovuto più alla presenza della Lega al governo per molti anni, prima con Berlusconi e oggi con il M5S, che a effettivi meriti istituzionali. Per la Lega le regioni — o meglio: le regioni controllate da loro — sono state sempre il mezzo preferito per “esprimere le istanze del territorio” e affermare “la propria identità culturale.” La gestione leghista lombarda però è gravemente insufficiente.

Basti pensare alla sanità: nonostante molti esponenti di Lega e Forza Italia si riferiscano al sistema lombardo come “modello Lombardia,” nei fatti si tratta di un sistema discriminatorio, in cui la sanità privata la fa da padrone ed è incoraggiata, nutrita e favorita: un sistema non egualitario, in cui l’accesso alle cure è molto più facile se si è un paziente ricco piuttosto che uno povero. Un sistema, tra l’altro, che è stato al centro di moltissimi scandali di malagestione, che hanno coinvolto figure di vertice come lo stesso ex presidente Formigoni o l’assessore alla sanità della giunta Maroni, Mario Mantovani.

Ma il settore più rappresentativo di quello che potrebbe succedere se venissero realizzate le richieste delle regioni è quello dei trasporti. Le regioni hanno chiesto che le strade statali sul proprio territorio vengano assoggettate alla loro autorità. Ma i progetti su cui, in Lombardia, ha messo mano la regione sono semplicemente un disastro: ad esempio Pedemontana, un’autostrada fortemente voluta da Maroni, che a riguardo si è esposto in modo personale e che oggi versa in uno stato di dissesto finanziario e di incompiutezza. O peggio ancora, a Trenord: un’azienda controllata a metà dalla regione, che ne nomina addirittura l’amministratore delegato, e la cui qualità del servizio è ai minimi storici.

In definitiva, la riforma proposta non parte nemmeno dal presupposto di favorire gli enti più virtuosi o efficaci, ma semplicemente da pregiudizi razziali e discriminazioni decennali, forse secolari, che sembrano ben radicati anche nel cuore del lombardo o del veneto più progressista. Quantomeno, nelle sezioni regionali del Partito democratico, che non solo non si sono opposte al progetto ma anzi, prima del referendum, l’avevano apertamente sostenuto: il candidato del Pd opposto a Fontana, Giorgio Gori sindaco di Bergamo, era a capo del fronte dei sindaci per il sì. A cui fa comunque comodo tenere un po’ di ricchezza sui territori che il partito amministra, come Milano o l’Emilia-Romagna, e far affondare ancora un po’ di più chi è povero — l’esatto contrario di quello che dovrebbe fare un partito di centrosinistra.

È online e scaricabile gratuitamente in formato PDF un ottimo saggio di Gianfranco Viesti, La secessione dei ricchi? edito da Laterza, che abbiamo usato come fonte primaria per i dati di questo articolo. È una lettura importante per capire meglio quella che potrebbe essere una svolta storica — e inquietante — per il paese.

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In copertina: la piazza sotto il Palazzo della Regione Lombardia, via Wikimedia Commons.

Gif via YouTube.

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