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in copertina, foto di Valentina Neri

Divertirsi come delle matte e avvicinare le persone: perché fare drag, e organizzare serate drag, è importante.

Il travestitismo è divertimento, momento ricreativo, ma è anche un atto politico: di ricerca e affermazione della propria identità, ma talvolta semplicemente di libera espressione creativa. È un atto “superficialmente profondo e profondamente superficiale,” come ci spiega Francesco nell’intervista.

Per comprendere meglio il mondo delle drag queen e capire quanto la nostra città possa dirsi libera dai pregiudizi abbiamo intervistato Francesco e Federico, che da anni si muovono in questo mondo con le proprie performance artistiche.

L’autrice con Francesco e Federico (foto di Margot Lynn)

Come sono nate le serate drag e la passione per il travestitismo?

Federico: È un qualcosa che ho maturato negli anni con l’esperienza.

È nato tutto in un determinato momento, però è un po’ come essere gay… ho sempre avuto dentro questa cosa del travestitismo, è come fare un vero e proprio outing, ce l’hai dentro di te e aspetti il momento giusto per esprimerti liberamente. Le prime serate drag a Milano sono nate nel 2013, ci siamo trovati noi due e un paio di altri amici, clienti di questo locale, il Toilet, che aveva appena cambiato gestione ed era un po’ alle prime armi con tutto. E un po’ per caso, un po’ perché effettivamente eravamo tutti interessati a moda, make-up, immagine di per sé, fotografia e quant’altro, abbiamo iniziato a sperimentare con quello che avevamo.

foto di Valentina Neri

Hanno ingranato subito a livello di accoglienza da parte del pubblico?

Federico: No, i primi mesi il locale era vuotissimo. In quel periodo ci siamo concentrati principalmente su noi stessi, perché era una cosa nuova (che in realtà inconsciamente avevamo tutti dentro da tempo). Ci facevamo le foto, usavamo le foto, scrivevamo cazzate. Inoltre un po’ perché eravamo lontani dal centro di Milano, un po’ perché il Toilet non era abbastanza gay per i gay e non era abbastanza etero per gli etero, si creava una situazione di mezzo dove le persone in generale facevano fatica a sentirsi a proprio agio. Fino a quando, arrivati noi, che eravamo un po’ più giovani, abbiamo portato una ventata di aria fresca, e da lì è diventato tutto più frizzante. Dopo sei mesi che lavoravamo, abbiamo anche avuto questa idea: per far arrivare la gente un po’ prima e far venire più persone, abbiamo cominciato a inscenare un vero e proprio spettacolo, chiamato “Lipshow,” mezz’ora, quarantacinque minuti prima del consueto Dj set. Lo spettacolo era la parte più divertente, perché ogni settimana ci studiavamo una canzone fatta in playback, e anche questo ci ha aiutati a crescere a livello professionale.

Come descriveresti una serata drag?

Federico: Una serata drag è una serata dove hai dieci padrone di casa sui tacchi che in qualche modo interagiscono con te e questo già cambia il livello di serata — perché c’è davvero un rapporto diretto con il pubblico. Il “Lipshow” è nato dopo, ma è in realtà una pratica abbastanza in uso nelle serate con drag queen. Siamo riusciti prima di tutto a mescolare prima più generi, attirando di conseguenza un pubblico variegato: quello “dark,” per esempio, composto da quelli che non sapevano dove andare perché lo “Zoo” era chiuso e il “Rock and Roll” non faceva più determinate serate. Anche tra i gay giovani è cominciato a diventare di moda: tanto è vero che ora è tutto commercializzato, è diventato uno standard, e non lo fai più perché ti poni delle domande o sai che quello è il tuo interesse, perché è una forma d’arte. Adesso è uno statement.  

foto di Margot Lynn

Il pubblico è andato in crescendo?

Federico: Il pubblico è andato in crescendo sia perché culturalmente nell’ambiente gay è diventato sempre più di moda, sia perché comunque abbiamo cominciato a raccogliere persone che capivano, che avevano in generale una comprensione più elevata del fenomeno, soprattutto all’evento estivo, che abbiamo sempre fatto al Parco Forlanini, è capitato purtroppo di avere a che fare con delle persone che non solo non sanno, ma non capiscono. Ma oramai sono talmente tanti anni che lo faccio, e sono talmente tante le persone che lo stanno facendo e che conosco, che per me è una cosa normale, e non riesco a rapportarmi al fatto che effettivamente, visto da fuori c’è tanta incomprensione.

Questi spettacoli possono servire a sensibilizzare il pubblico riguardo alle tematiche della transessualità e a sfatare alcuni preconcetti?

Federico: Sì sì, assolutamente. Perché ti rendi conto che esiste una realtà differente dalla tua; non ha funzione di mero intrattenimento ma ha funzione politica e sociale di avvicinamento delle persone, che sono a volte inconsapevoli che esistono n sfaccettature di una realtà. Per assurdo, tra una drag queen e una persona transessuale c’è una differenza enorme, sono all’opposto: una drag queen, è perlopiù un uomo omosessuale che si traveste da donna. Ma non ha a che fare con la sessualità: io non mi sento donna a livello biologico come può sentirsi invece una transessuale. Una travestita, una cross-dresser per esempio, è ancora una cosa differente. Noi rappresentiamo il nostro essere, che è una cosa specifica. Il posto che abbiamo creato ha fatto sì che tante differenze si siano aggregate a questa realtà: persone transessuali, cross- dresser, eterosessuali. Io stesso mi sono reso conto della normalità con cui vengono affrontate queste differenze all’interno di uno stesso tema. È quello che ti dicevo prima: il Toilet all’inizio non era abbastanza gay per essere gay, non era abbastanza etero per essere etero, perché in realtà era tutto.  

Per te cosa cosa vuol dire fare serate drag?

Francesco: Fare drag di base… è come se avessi una modella e le metti quello che vuoi, e la trucchi come vuoi e ne fai la tua bambolina. Nel mio caso non ho una modella — di base per lavoro anche ce l’ho, però non posso mai decidere io che cosa fare davvero — e quindi prendo me stesso. Mi metto un corsettino, un vestito su misura, la parrucca, a truccarmi sono “top” e vengo pazzesca, e sono libero di esprimermi, sia nel lato femminile — ma anche no, è un riferimento implicito quello. Ha sempre un rimando alla femminilità, ma perché nella nostra mente mettersi i tacchi è uguale a femminilità, io anche quando mi travesto da mostro mi devo comunque mettere i tacchi, perché è come quando tu ti metti i tacchi, ti senti dieci volte più figa.

foto di Margot Lynn

Per te ha anche una finalità politica?

Francesco: Può darsi. Io lo faccio però in primo luogo perché mi diverto come una matta: l’ho sempre fatto per me stesso, rientra tutto nel mio divertimento. Poi certamente, ha cambiato il mio modo di percepire questa realtà, il mio modo di percepire il mio corpo, la mia sessualità, il mio genere. Ma è un qualcosa nato da me stesso. È profondamente superficiale, superficialmente in maniera profonda.

Perché vi siete poi allontanati dal Toilet scegliendo altre realtà anche autogestite?

foto di Naila Dadash-Zadeh

Francesco: Il Toilet ci aveva stufato, sostanzialmente; i primi anni  si aggregavano diversità di ogni tipo: ti veniva il ragazzo transessuale, la ragazza transessuale, l’etero con la fidanzata, il gay, la lesbica, l’etero che veniva per rimorchiare la travestita, il feticista che mi beccava e mi diceva: “Mestruo mi sputi nel drink?”, poi è diventata una discoteca vera e propria. All’inizio era un qualcosa di “hard”, ma anche un ambiente estremamente rispettoso e civile. Ti racconto un aneddoto: una sera andai in drag al Plastic (quando finivamo al Toilet andavamo in after lì) e io avevo quella sera una gonna enorme, gigante, tipo Maria Antonietta. Al Toilet passando con quella gonna, chiaramente, – a parte che occupava mezzo locale — la gente si spostava, anche se dovevo scendere le scale, le persone si rivolgevano a me dicendo: “Mestruo vieni, ti do una mano.” Invece, per dirti, al Plastic la gente mi pestava la gonna apposta, benché al Plastic ci vada di base il bocconiano. Invece da noi c’erano i casi umani, c’era il feticista, che c’era quello tutto vestito di lattice, e tra i clienti era in realtà una roba estremamente pulita. Da lì è cambiato, ed è diventato una discoteca vera e propria, che da un lato ti dava anche un gettone in più per quanto riguardava il tuo lavoro e la tua performance. Dall’altro però io non ero più parte della creazione della serata, ero una cazzo di cubista, che veniva pagato per conciarsi e per ballare sul palco. Senza neanche dire: mi creo una performance , facciamo delle prove. Pensi: va beh, devo stare tutta la serata sul palco, però devo avere qualcosa da fare, non posso stare tutta la serata a ballare sul cubo. Può anche essere divertente la prima volta, ma alla fine ci siamo stufati. Anche perché di base, non importa quanto ti danno a serata: spenderai sempre di più per prepararti, a prescindere. Tra abiti, trucco, parrucche, anche se mi dessero 1000 euro a serata, spenderei comunque 1200 euro. Allora tanto valeva tornare a ricreare qualcosa che potessi sentire mio, in una location che non fosse una discoteca. Abbiamo valutato se esibirci in altre discoteche — ma poi ci siamo resi conto che c’è, in quel tipo di ambiente, sempre qualcuno che ti dice: devi conciarti così, la performance devi farla così, questa canzone devi farla così. Calma, io ho un bisogno espressivo — se ho qualcuno che mi dice cosa e come farlo, non è più espressione, è soltanto lavoro.

Federico: Come ha detto bene Francesco: non c’era più nient’altro, non era più una comunità. Era proprio la questione sociale di considerarsi un gruppo. In più, davvero, io sono profondamente convinto che non bisogna mai ghettizzarsi, perché altrimenti si va a creare una realtà superficiale: perché non hai delle alternative e vai avanti con il paraocchi. Invece, avere una differenza e soprattutto avere alla base un interesse comune, ti permette di mirare non soltanto al successo di una serata: ma alla creazione, all’espressione, al miglioramento della società attraverso l’alternativa generata.

Credi che la situazione a Milano sia migliorata in questo senso?

Federico: a Milano negli ultimi 10 anni è molto migliorata la situazione, io non è che abbia mai avuto grandi problemi, ho sempre avuto la fortuna di vivere in ambienti abbastanza aperti, ma conoscendo le esperienze degli altri, so che il salto qualitativo è stato notevole. È mero pregiudizio che noi stessi possiamo aiutare a scardinare.

Francesco: Fortunatamente la figata di questo periodo è che se vieni a dirmi “ricchione” in pubblico, io posso anche appena averti menato ma tu passi automaticamente dalla parte del torto, perché è diventato politicamente scorretto dirlo.