Cosa c’entra il quadro perduto di Leonardo con l’inchiesta su Trump, Russia e Arabia Saudita?

Gli intrighi tra Trump, oligarchi russi e Arabia Saudita hanno raggiunto il livello di demenzialità di un romanzo di Dan Brown.

Cosa c’entra il quadro perduto di Leonardo con l’inchiesta su Trump,  Russia e Arabia Saudita?

Gli intrighi tra Trump, oligarchi russi e Arabia Saudita hanno raggiunto il livello di demenzialità di un romanzo di Dan Brown.

Vi ricordate del Salvator Mundi? Il quadro la cui paternità, attribuita a Leonardo Da Vinci, è da anni al centro di uno dei dibattiti più accesi nel mondo dell’arte? Narativ, un blog che cerca di a fare ordine sull’ingerenza russa nelle elezioni statunitensi del 2016, sostiene che l’opera sarebbe coinvolta nelle indagini di Mueller e costituirebbe una prova del collegamento tra Arabia Saudita e Russia nel caso di cospirazione per eleggere Donald Trump presidente.

Il blog, gestito dal producer televisivo Zev Shalev e dalla giornalista investigativa Tracie McElroy, non presenta una pistola fumante, ma inquadra il già molto sospetto acquisto del Salvator Mundi nel contesto delle informazioni finora pubbliche sul caso del Russiagate. Facciamo un necessario passo indietro, per spiegare la storia matta dell’opera — forse — di Leonardo Da Vinci.

Quando è stato acquistato all’asta di Christie’s lo scorso 15 novembre 2017 il Salvator Mundi è diventato il quadro più caro della Storia, con un prezzo record di 450,3 milioni di dollari: infinitamente superiore alla valutazione di 120 milioni che ne era stata data precedentemente. E anche quella quotazione potrebbe essere discutibile: perché non solo la paternità dell’opera è appunto molto discussa, ma perché in ogni caso il quadro visibile oggi è frutto di un lavoro di restauro pressoché totale, che lascia pochissimo della presupposta opera originale. Prima del restauro, quello che rimaneva della tela era stato venduto nel 1958 a 45 sterline a Sir Francis Cook, a Londra.

L’asta si chiuse nel mistero sul facoltoso estimatore che si fosse potuto permettere un prezzo così esoso. Fu il New York Times a identificarlo come il principe saudita Bader bin Abdullah bin Mohammed bin Farhan al-Saud, uno degli uomini più vicini a Mohammed Bin Salman, il miglior amico di Trump in Arabia Saudita e secondo molti diretto mandante dell’omicidio Khashoggi.

Chi aveva messo all’asta il quadro? Il proprietario precedente era l’oligarca russo Dmitry Rybolovlev, che l’aveva comprato nel 2013 per 126 milioni. Rybolovlev riesce in una specie di miracolo: sempre nel 2013 fa causa al mediatore dell’acquisto Yves Bouvier, perché non gli avrebbe rivelato che all’epoca il quadro era valutato solo 80 milioni. Malgrado questi dubbi su un possibile gonfiamento della valutazione, però, nel giro di cinque anni riesce a vendere il pezzo a quasi il triplo del suo valore — un miracolo!

Oppure — e qui si innesta la tesi di Shalev e McElroy — non è stato un miracolo. Secondo i giornalisti l’acquisto sarebbe stato studiato per trasferire da parte dei sauditi un pagamento nascosto a un’agenzia israeliana specializzata nella manipolazione dei social network.

Non è la prima volta che Rybolovlev è coinvolto nelle carte dell’indagine di Mueller: lo scorso anno lo Spiegel aveva rivelato che nel 2008 l’oligarca aveva acquistato da Trump una residenza in Florida per 95 milioni di dollari — una villa che l’attuale presidente aveva acquistato, solo quattro anni prima, a metà di quel prezzo. La villa doveva essere un vero esemplare di qualità perché — dopo aver cercato di venderla per anni — Rybolovlev l’ha abbattuta, mettendola in vendita come territorio edificabile vicino alla costa.

Rybolovlev si sarebbe trovato almeno due volte nei pressi degli ultimi rally di Trump nel 2016. Non ci sono prove che i due si siano incontrati, ma certamente si conoscono.

Si sta parlando molto dell’incontro tra Don Trump Jr. e l’avvocatessa russa Natalia Veselnitskaya del 9 giugno 2016, ma secondo il giornalista Seth Abramson, autore di “Proof of Collusion,” sarebbe un altro l’incontro più importante svoltosi in quei giorni.

Coordinato da Erik Prince — fondatore del potentissimo fondo Blackwater — si sarebbero trovati nella Trump Tower: Mohammed Bin Salman, il principe della corona di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed, e Joel Zamel, fondatore di Psy–Group, un’agenzia specializzata nella manipolazione dei social network attraverso fake news.

Ad oggi tutti negano che Psy–Group abbia lavorato per la campagna elettorale di Trump. Non hanno torto, ma si tratta di una mezza verità: il partner digitale del comitato elettorale era l’ora famigerata — e dissolta — Cambridge Analytica. Ma C.A. non aveva una propria filiera di produzione contenuti: si occupava solo di profiling attraverso i dati che Facebook aveva lasciato rubasse agli utenti. Secondo il Daily Beast, almeno due membri del comitato elettorale di Trump hanno coordinato lavori con lo Psy–Group come contractor di Cambridge Analytica.

Psy–Group, come Cambridge Analytica, oggi non esiste più. L’agenzia si è sciolta quando le indagini di Mueller hanno chiesto l’accesso ai conti in banca del gruppo. Conti correnti, casualmente, depositati presso la Banca di Cipro — di cui Rybolovlev possiede una quota di controllo.

Ritorniamo al Salvator Mundi, e all’asta di Christie’s. Com’è possibile che un quadro, la cui veridicità era tutta da accertare, e che ci si aspettava potesse essere venduto a non più di 80 milioni, sia diventato il più caro del mondo? Perché oltre a Bader bin Abdullah bin Mohammed bin Farhan al-Saud lo voleva qualcun altro — un offerente anonimo che continuava ad alzare il prezzo. Lo scorso anno il Daily Mail l’ha identificato come il principe della corona di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed: sì, il rappresentante degli UAE che aveva incontrato nella Trump Tower il fondatore di Psy–Group Joel Zamel.

Ad oggi insomma sappiamo che Psy–Group ha lavorato per il comitato elettorale di Trump, ma che lo ha fatto senza essere apparentemente mai pagato. Ma sappiamo anche che, immediatamente dopo, gli organizzatori della campagna di Cambridge Analytica / Psy–Group si sono scambiati centinaia di milioni di dollari per un’opera che ora è sparita.

Sì, perché dopo l’acquisto il Salvator Mundi doveva essere esposto come gioiello al Louvre di Abu Dhabi: ma per qualche ragione il suo esordio al museo è stato rimandato a data a destinarsi, proprio all’inizio del cinquecentesimo anniversario della morte di Leonardo.