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Nel sotterraneo di una vecchia abitazione nella capitale georgiana si trova la tipografia clandestina dove il giovane Stalin stampò migliaia di volantini opuscoli rivoluzionari. Trasformata in un museo, ora rischia di chiudere definitivamente.

Una breve corsa in metro dalla brulicante piazza della Libertà mi trasporta direttamente nel cuore del distretto di Avlabari, una zona della vecchia Tbilisi il cui territorio è condiviso dal moderno palazzo presidenziale con il suo scintillante duomo in vetro, la Cattedrale della Santissima Trinità e le malandate abitazioni residenziali un tempo popolate in gran parte dalla comunità armena. Sono qui, sul lato orientale del fiume Mtkvari, a testa bassa sul cellulare nel tentativo di seguire le indicazioni di Google tra fruttivendoli e officine meccaniche, alla ricerca di un edificio anonimo sotto il quale, si dice, un giovane comunista di nome Iosif Juashvili abbia prodotto materiale di propaganda votato alla rimozione di Nicola II, l’ultimo imperatore russo.

Nonostante questa fosse la mia seconda volta nella capitale, avevo sentito parlare della tipografia segreta di Stalin solo un paio di giorni prima, mentre viaggiavo verso sud sulla Strada Militare Georgiana dalla città di confine di Vladikavkaz. Cercando attrazioni meno turistiche che mi potessero intrattenere prima di proseguire lungo il mio itinerario in direzione Azerbaigian, mi ero imbattuto in una serie di commenti in rete che sembravano puntare con chiarezza ad un luogo in grado di soddisfare la mia curiosità sovietica. Annidato sotto a un’apparentemente indistinguibile casa di mattoni fuori dal centro città, esisteva una stampante centenaria che aveva infiammato gli spiriti ribelli dei proletari caucasici.

Dopo aver girato a vuoto per almeno venti minuti attorno a una struttura simile a un ospedale, un passante aveva notato la mia perdita d’orientamento e aveva offerto il suo aiuto. “Stalin?” avevo chiesto facendo un gesto con la mano che (nella mia mente) simboleggiava “sottoterra.” Con un sorriso, l’uomo mi aveva spinto dietro l’angolo. Se solo avessi alzato la testa dallo schermo mi sarei reso conto quanto facile da riconoscere fosse questo luogo: una doppia falce e martello dipinta su un cerchio rosso marchiava l’ingresso di quel che ho ben presto scoperto essere il quartier generale del Partito Comunista Georgiano.

Iosif Jugashvili, meglio conosciuto come Josef Stalin, crebbe a Gori, una cittadina situata due ore a est della capitale, e si trasferì a Tbilisi all’età di sedici anni per studiare al Seminario Spirituale Ortodosso. Nonostante il giovane Stalin fosse uno studente formidabile, la sua carriera ecclesiastica fu breve: crescendo, il suo interesse nei confronti della Bibbia fu rimpiazzato dal fascino per autori pro-rivoluzione come Chernychevsy, Kazbegi e, ovviamente, Marx. Nell’arco di un decennio, la vita di Stalin era cambiata in modo drammatico: era entrato nell’adolescenza con la prospettiva di diventare prete e ne era uscito ateo, organizzatore di scioperi nelle fabbriche, rapinatore di banche e produttore di volantini, manifesti ed opuscoli pensati per convertire l’intera Transcaucasia alla nuova, sovversiva, dottrina.

Nell’arco di un decennio, la vita di Stalin era cambiata in modo drammatico: era entrato nell’adolescenza con la prospettiva di diventare prete e ne era uscito ateo, organizzatore di scioperi nelle fabbriche, rapinatore di banche e produttore di volantini.

“Scusate, è questa la… stamperia?” chiedo entrando nella sala, interrompendo un gruppo di signori impegnati a discutere di fronte ad una pesante tenda rossa. “Segui quella donna, ha appena cominciato” mi sento dire in inglese. “La donna” era un membro del partito, una volontaria che si occupa di guidare i pochi visitatori che bussano alla porta tra i vari locali del museo. Dietro di lei un uomo cinese con la sua accompagnatrice georgiana componevano l’intero gruppo. Uscendo dall’edificio principale, ci troviamo in un cortile ricco di piante rigogliose, di fronte ad un’abitazione cadente coperta da un tetto in legno che sembrava esser prossimo al collasso. “Due signore anziane vivevano in questa casa fino al 1906. Ogni giorno, dalla mattina alla sera, se ne stavano sedute qui in terrazza, lavorando a maglia” spiega la guida trattenendo un sorriso, “Avevano un solo obiettivo: se vedevano qualcuno avvicinarsi dovevano premere questo pulsante una volta; se quel qualcuno si allontanava premevano due volte, ad indicare falso allarme; un terzo richiamo invece voleva dire che bisognava nascondersi in fretta!”

L’interruttore utilizzato per segnalare l’arrivo della polizia era collegato ad un campanello situato in una stanza quindici metri sotto terra, costruita a inizio secolo dal fabbro Mikhail Zakharevich Bochoridze, un membro del Comitato del POSDR (il Partito Operaio Socialdemocratico Russo) di Tbilisi. Dopo aver ottenuto l’autorizzazione dal proprietario del fondo, una stampante tedesca datata 1893 fu fatta entrare clandestinamente in Georgia da Baku, quindi smontata e calata pezzo per pezzo nella camera sotterranea per poi essere riassemblata. La tipografia cominciò a lavorare nel 1903 e per accedervi i bolscevichi erano costretti a scendere attraverso il canale di un pozzo e poi spingersi in un passaggio laterale scavato nella parete che si apriva nella stanza segreta.

Migliaia di opuscoli furono stampati illegalmente in russo, georgiano, azero e armeno, per poi esser distribuiti in ogni angolo del Caucaso con l’intento di attirare i cittadini verso gli ideali rivoluzionari.

Stalin aveva abbandonato il Seminario e si stava facendo conoscere come una figura centrale nel movimento proletario, grazie sia ai suoi metodi poco ortodossi di raccolta fondi, sia per le grandi manifestazioni di lavoratori che era riuscito ad organizzare a Batumi. Il continuo scontro con le autorità si concluse nel 1902, quando Stalin fu arrestato e, pochi mesi dopo, deportato nella Siberia orientale a scontare la sua sentenza di tre anni. In seguito ad un primo fallito tentativo di evasione attraverso gli sterili paesaggi della provincia di Irkutsk, Stalin riuscì a tornare a Tiblisi e cominciò a lavorare nella tipografia nel 1904, supportato dai suoi alleati dell’appena formato movimento bolscevico.

“Qui è dove Iosif riposava alla fine del suo turno” mi viene spiegato mentre visitiamo una della camere della casa. In un angolo di questo spazio disadorno, un letto singolo protetto da un cordone rosso è circondato da carta da parati sbiadita e pile di libri erette davanti alle finestre; vecchi giornali accatastati su scaffali e arredo raccontano la salita al potere di Stalin, mentre poster e ritagli appesi al muro decorano la sala facendola somigliare più ad uno santuario religioso che ad un museo. “Sappiamo che ha sbagliato” mi spiega la rappresentante del partito, “Sono stati commessi molti errori, è innegabile. Politicamente però, Stalin è stato un genio. Quel che è successo tra queste mura ha fatto la Storia.”

La tipografia fu scoperta per sbaglio nel 1906, dopo che la polizia, sospettosa del constante via vai, decise di ispezionare l’abitazione.

Leggenda vuole che un fiammifero acceso fu lanciato nel pozzo dagli agenti per capire cosa si trovasse alla sua base, ma un soffio di vento spinse la fiamma nel canale laterale, rivelando così il tunnel che dava accesso alla sala nascosta. La tipografia, dopo la distruzione di tutto il materiale stampato e di buona parte dell’attrezzatura, venne chiusa e lasciata marcire per trentun’anni, fino a quando Stalin non divenne il leader dell’URSS e decise di dare alla struttura una seconda vita trasformando il laboratorio clandestino in un museo. Una volta restaurata la stampante e costruita una scala a spirale per permettere ai visitatori l’accesso alla camera sotterranea, la tipografia di Stalin diventò un’attrazione popolare tra i turisti interessati a conoscere le origini della rivoluzione del 1917. Ascoltare questa storia mentre scendo sui fragili gradini verso la sala scura ed umida in cui si trova la stampante ormai coperta completamente da uno strato di ruggine arancione è un’esperienza surreale. Una mappa illuminata da una lampadina appesa al soffitto mostra la rete di passaggi in cui, originariamente, era necessario calarsi per raggiungere la stanza, mentre sul soffitto si vede il foro dal quale si doveva calarsi per entrare.

Il declino del museo cominciò con la caduta dell’Unione Sovietica, ma adesso rischia di essere chiuso in maniera definitiva come parte del processo di de-Sovietizzazione implementato in seguito alla Rivoluzione delle Rose del 2003. “Non ci è permesso chiamarlo museo. Non possiamo fare alcuna promozione, vendere biglietti o fare domanda per fondi pubblici. Siamo felici che qualche visitatore arrivi per sentito dire, ma tecnicamente quello che stiamo facendo è illegale. Al momento, viviamo di donazioni,” mi spiega Timur Pipia, uno dei nuovi capi del partito. “C’è un processo in corso. Siamo stati in tribunale e ci torneremo presto. Il governo vuole demolire l’edificio e dare il permesso per costruire un hotel. Ma questa è Storia, non possiamo permetterlo.”

Le tracce della Georgia sovietica hanno cominciato a scomparire da quando il governo ha deciso di separarsi una volta per tutte dal proprio passato, nel tentativo di avvicinarsi all’Europa. La popolazione è ancora divisa tra nostalgici e progressisti. A Gori la statua di Stalin che con i suoi sei metri di altezza segnava il centro della piazza del municipio dal 1952 fu rimossa per essere sostituita con un monumento in onore delle sue vittime, ma la casa natale di Stalin (una famosa attrazione turistica su cui l’economia di Gori dipende) resta intatta.

“Vieni, ti faccio vedere l’ufficio” mi chiama Pipia notando la mia curiosità. Due grandi bandiere rosse occupano la parete, eclissate solo dai ritratti incorniciati di Lenin e Stalin. Un vecchio telefono rotativo occupa il centro della scrivania in legno, circondato da documenti e pile di giornali disordinate. “Qui è dove tentiamo di far sì che il futuro non vada in rovina,” mi dice ridendo “ma quando la politica ci delude, per fortuna c’è ancora il cibo, l’unica cosa su cui i georgiani sembrano ancora essere uniti. Hai già provato l’ajapsandali?”


Tutte le foto dell’autore.

Una versione di questo articolo è apparsa originariamente in inglese su Matador Network ed è tra i vincitori della 28esima edizione del NATJA Travel Media Awards Competition.

Angelo Zinna, scrittore freelance, è autore del libro Un altro bicchiere di Arak (Villaggio Maori Edizioni, 2016) e del sito di viaggi Exploremore. Seguilo su Instagram.

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