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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.

Dopo l’Islanda e l’Olanda la collana the Passenger di Iperborea si è fermata in Giappone. Abbiamo incontrato Laura Liverani, fotografa che ha illustrato i racconti degli undici contributi narrati da altrettanti scrittori.

Durante la presentazione del libro l’editore ha raccontato che nel momento in cui si è rivolto a Prospekt per avere il nome di un fotografo che si potesse occupare di un libro sul Giappone, è stato fatto immediatamente il tuo nome. Mi racconteresti come sei “sbarcata” in Giappone prima del libro pubblicato con Iperborea?

Ho fatto un viaggio in Giappone per la prima volta nel 2007, e ne sono rimasta incantata. Ci sono arrivata per caso. Ero a Shanghai per lavorare ad alcuni progetti fotografici personali e ho voluto fare un viaggio di avanscoperta: per visitare alcuni amici, e per farmi un’idea del paese, scattando alcune foto ma senza avere un progetto in mente.

Non avevo mai studiato la lingua e non avevo alcun particolare interesse nei confronti della cultura giapponese, a parte forse una predilezione per il cinema sperimentale e di genere degli anni ’60 e ’70 (ATG, Ishii Teruo, pinku eiga della Nikkastu, etc.) Ad esempio non mi ero mai interessata di manga o di cultura “otaku,” e neppure delle arti tradizionali. Non conoscevo quasi nulla della fotografia giapponese. Dal 2008 sono tornata tutti gli anni eccezion fatta per il 2011 che, caso vuole, era l’anno del terremoto e tsunami in Tohoku. Dal 2012 ad oggi ho passato in Giappone dai tre a sei mesi ogni anno. Considero Tokyo la mia seconda casa.

Il libro presenta undici brevi racconti scritti da altrettanti autori. Alcune storie le avevi già scoperte e raccontate, altre le hai realizzare ad hoc per il libro. Per una fotografa che ha avuto modo di raccontare autonomamente alcune storie, come è stato raccontare per immagini quello che altri hanno espresso a parole?

Danchi

L’anomalia è stata partire direttamente dal testo per lo sviluppo della storia per immagini. In genere chi fotografa, sia che lavori ad un assegnato o ad un progetto personale, non parte da un testo ma da una storia. Io invece sono partita da un testo, una storia già mediata dalla scrittura dunque. La cosa interessante è che in questo modo ho sviluppato una narrazione per immagini indipendente, non coincidente con quella della scrittura. Quindi non illustrazione, ma piuttosto interpretazione. Ad esempio, come raccontare l’assenza del populismo in Giappone? (Spiegato nell’articolo di Ian Buruma, ndr). Ho individuato alcune concetti chiave nel testi, quali “senso di appartenenza,” “collettività” e ho pensato di trovare situazioni che mostrassero gruppi di persone, se non addirittura folle, impegnate nella stessa attività: il pubblico di uno spettacolo per famiglie, le coriste del centro sociale per anziani, le appassionate di kimono, i bagnanti che affollano una piscina. Un altro esempio: per “illustrare” il calo del desiderio e la depressione post-baburu (Murakami Ryu) ho pensato di raccontare i Danchi, ossia i casermoni popolari delle periferie delle metropoli giapponesi, in particolare quello detto “Danchi dei suicidi” di Takashimadaira dove, a partire dalla sua costruzione all’inizio degli anni ’70 fino a quando sono state messe reti di protezione, molti sono morti gettandosi dai piani più alti dei condomini.

Il libro è un esperimento editoriale, di successo, in quanto cerca di coniugare libro e rivista, parole e fotografie. Fotografi e scrittori non dialogano, spesso sono i photo editor, le redazioni, che si occupano di far stare insieme questi due linguaggi. Cosa ne pensi di questa esperienza come diretta interessata e cosa ne pensi invece di questa possibilità, forse poco sondata editorialmente?

È stato un processo molto interessante, ed un modo di lavorare per me inedito. La scelta di affidare ad un solo fotografo tutte le immagini del libro è una scelta coraggiosa, forse anche rischiosa. Di solito si affida la scelta delle immagini che illustrano una rivista o un libro ad un photoeditor che reperisce le immagini da diversi fotografi. Nel caso di The Passenger invece il fotografo fa anche il photoeditor di se stesso: attraverso la mediazione dell’agenzia Prospekt, ho infatti dialogato costantemente con la redazione di Iperborea per decidere insieme come sviluppare i racconti per immagini.

Ci sono storie che ti hanno appassionato più di altre?

Ci sono storie che mi hanno appassionato dal punto di vista soprattutto della lettura, ad esempio quella sugli Evaporati, e altre che mi hanno appassionato di più nella ricerca fotografica. Ad esempio l’articolo sulla rappresentazione della famiglia nel cinema di Giorgio Amitrano mi ha permesso di sfruttare la mia ossessione nei confronti della fotografia vernacolare, in particolare la foto di famiglia fatta in studio. Ho sviluppato un’idea che parte proprio dai codici linguistici del ritratto degli studi giapponesi, che ancora oggi sopravvivono. In Giappone si ricorre alla foto-ritratto formale in studio in diverse occasioni della vita, molto più spesso di quanto non si faccia in occidente. Ogni immagine è un vero e proprio rituale. Ho fotografato tre famiglie improvvisando insieme uno studio fotografico nelle loro case, e ho anche fotografato i loro album di famiglia privati.

L’introduzione del libro recita “il Giappone è sempre un puzzle di cui riusciamo ad assemblare alcune tessere, ma il cui disegno complessivo rimane impenetrabile:” cosa pensi di essere riuscita a capire del Giappone, ad oggi?

Non è mia pretesa capire il Giappone, anzi ogni volta che torno scopro cose nuove da esplorare, che pongono nuove domande e nuove prospettive di visione sulle cose. E che mi fanno sempre tornare. Quanto al “disegno complessivo,” forse è un’esigenza di noi occidentali, mi chiedo? Intendo, forse l’approccio alla comprensione del Giappone non deve necessariamente passare da una visione d’insieme.

Immagino tornerai in Giappone. Hai già idee sui prossimi ambiti da esplorare o storie pronte da raccontare?

Vorrei tornare in Tohoku e mi piacerebbe sviluppare il progetto sulle famiglie, nato grazie alla commissione per Iperborea.


Laura Liverani è fotografa documentarista e docente universitaria. Dopo la laurea in DAMS all’Università di Bologna e in Photographic Studies alla University of Westminster di Londra, oggi vive e lavora tra l’Italia e l’estremo oriente, soprattutto in Giappone. Svolge diversi progetti fotografici indipendenti e assegnati, spaziando dal lavoro di ricerca personale alle commissioni editoriali e commerciali. Le sue fotografie circolano in esposizioni e festival in Europa e in Asia, tra cui l’Istituto Italiano di Cultura e la G/P Gallery di Tokyo, il Singapore International Photography Festival e il Festival della Fotografia Etica di Lodi. Le sue foto sono apparse su D – la Repubblica, Marie Claire, The Guardian, Washington Post, Clothes for Humans di Benetton, Japan Times e New Scientist. Da molti anni è coinvolta in progetti di insegnamento della fotografia per associazioni culturali, ONG e università, principalmente in Europa. Nel 2011 è  stata Artist in Residence alla Middlesex University di Londra. Oggi insegna fotografia presso l’università del design ISIA di Faenza ed è visiting lecturer al National College of Art di Dublino. Nel 2015 vince la prima edizione del Premio Voglino con il suo progetto a lungo termine sugli Ainu del Giappone. Dal 2017 fa parte dell’agenzia Prospekt Photographers.