La direttiva europea sul copyright potrebbe arenarsi, ma non per il motivo che pensate
La discussione verrà per forza rimandata a gennaio. Non solo saremo nell’anno nuovo, ma scatterà anche un nuovo semestre di presidenza europea — e le elezioni si avvicinano.
La discussione verrà per forza rimandata a gennaio. Non solo saremo nell’anno nuovo, ma scatterà anche un nuovo semestre di presidenza europea — e le elezioni si avvicinano.
Giovedì scorso i rappresentanti di parlamento, consiglio e commissione europea si sono riuniti in “trilogo” per discutere — un’ultima volta prima dell’approvazione definitiva — la Direttiva per il Copyright che minaccia di minare le fondamenta del funzionamento di internet. La Direttiva era arrivata a questo punto delle procedure a fatica, ma grazie al voto frammentato di S&D — Socialist and Democrats, la piattaforma europea di cui fanno parte la maggioranza dei partiti progressisti continentali tra cui il Pd — era quasi riuscita a tagliare il traguardo.
Durante il percorso la legge aveva assunto ad un certo punto una forma ragionevole — in particolare grazie alla rimozione della normativa per regolare i link ai giornali. Ma a colpi di emendamenti l’europarlamentare tedesco Alex Voss, diventato relatore principale del testo, ha reintrodotto sia la link tax sia l’obbligo di filtri per il copyright su tutti i contenuti caricati dagli utenti. Voss ha fatto di tutto per far arrivare i filtri dei contenuti nel testo definitivo della legge — fino a mantenere sostanzialmente l’obbligo dei filtri, ma rimuovendo ogni istanza della parola “filtro” dalla legge — e aveva previsto delle esenzioni alla normativa per alcune “microimprese.”
Le lobby del diritto d’autore però hanno visto gli accorgimenti di Voss come una concessione alle piattaforme web, in particolare in seguito a una sentenza di una corte tedesca che ha sottolineato come le aziende siano già responsabili per il rispetto del diritto d’autore sulle proprie piattaforme — e temono che i compromessi accettati da Voss potrebbero costituire una legge meno rigida dello status quo stesso secondo i codici di molti paesi europei. Le lobby hanno pubblicato una lettera aperta in cui chiedono di eliminare ogni riferimento a esenzioni dalla normativa, e tornano a parlare di come internet abbia creato un divario “di valore,” che va riparato costringendo per legge le aziende a pagare nuovi costi. Il testo, a onor del vero, è completamente trasparente: nemmeno in un punto cerca di spacciarsi per interessato ai diritti del pubblico — la lettera più volte direttamente ripete di voler difendere la posizione della “comunità dei titolari dei diritti.”
https://www.documentcloud.org/documents/5533255-181210-Audiovisual-Letter-New-Statement-on-Value.html
Le tensioni interne alle stesse istituzioni europee sono emerse la settimana scorsa, quando una lettera interna dei relatori ombra sottolineava come fosse impossibile chiudere un testo con così tanti emendamenti su cui il parlamento era ancora così profondamente diviso. Euractive, che ha rivelato l’esistenza della lettera, ha chiesto un commento al relatore ombra Jean–Marie Cavada (ALDE, Francia) che ha descritto la direttiva come circondata da un “clima detestabile.”
Le modifiche di Voss erano invece state accolte con tripudio dalla stampa internazionale, che spera di vedere nella link tax la possibilità di recuperare qualche soldo dalle piattaforme web.
Ma anche il loro supporto è miope: negare la libertà di linkare ad articoli sul lungo periodo rischia di danneggiare gravemente la libertà di stampa, impedendo di fatto di sostanziare le affermazioni della stampa — soprattutto quella indipendente — e aiutando ad assottigliare ulteriormente la percepita differenza tra informazione e disinformazione.
Malgrado i pesi massimi dell’accademia si siano spesi per far capire l’erroneità dei propri presupposti agli editori, sembra si tratti di una battaglia persa. Avviluppati nei propri sogni di ritrovata ricchezza, gli editori ignorano completamente come una norma simile spingerebbe tutti gli aggregatori di notizie di medie dimensioni fuori dal mercato europeo, e, sebbene sia facile non considerarle che minacce, lo stesso Richard Gingras, vice-presidente di Google News, ha nei giorni scorsi dichiarato che l’azienda potrebbe decidere semplicemente di non offrire più il servizio nell’Unione Europea.
Non si tratta di uno scenario da minimizzare. La chiusura di Google News in Spagna, nel 2014, cantata come un successo dell’industria, ha causato un crollo di visualizzazioni del 14% tra i giornali del paese, con voragini ancora più drastiche nella stampa indipendente, che più strettamente dipende dagli aggregatori. Uno studio dello scorso anno di Joan Calzada e Ricard Gil evidenzia come in questo nesso storico la cosa più urgente per i detentori di diritto e per gli editori sia aumentare la consepovalenza degli utenti verso il proprio prodotto — e per la stampa in particolare, è necessario sensibilizzare il pubblico verso l’attualità.
I presupposti non sono i migliori: nel corso della stesura della legge è emersa con forza l’impreparazione degli organi politici comunitari quando si tratta di affrontare materie relative alle politiche informatiche — come è successo, in un caso separato, in occasione delle ridicole audizioni di Mark Zuckerberg presso il congresso statunitense e l’europarlamento. Questo è grave soprattutto in sede legislativa, considerato come un’adeguata campagna di lobbying da parte di qualche interessato rischi di convincere un parlamento continentale a promulgare leggi che impediscono di inserire nei propri contenuti fotografie di paesaggi, come è quasi successo.
A questo punto la discussione verrà per forza rimandata a gennaio. Ciò significa non solo che saremo nell’anno nuovo, ma che scatterà anche un nuovo semestre di presidenza europea — per essere precisi, della Romania. E sempre più vicini alle prossime elezioni europee, a qualche parlamentare in più potrebbe interessare ascoltare le proteste dei milioni di europei che hanno chiesto di bloccare le norme censorie della direttiva.