Perché ci opponiamo alla riapertura dei Cpr

Sabato saremo in piazza per manifestare contro la trasformazione del Cas di via Corelli in una struttura di detenzione amministrativa, aderendo alla campagna “Mai più lager – NO ai CPR.”

Perché ci opponiamo alla riapertura dei Cpr

Sabato saremo in piazza per manifestare contro la trasformazione del Cas di via Corelli in una struttura di detenzione amministrativa, aderendo alla campagna Mai più lager – NO ai CPR.

Edit 30/11/2018: quello visibile nella foto di copertina (e nelle altre all’interno dell’articolo) è il Cas gestito dalla Croce Rossa in via Corelli, sul cui muro perimetrale campeggia un murale realizzato dagli ospiti della struttura insieme all’artista Vermi di Rouge a luglio. Ma non è l’unica struttura di accoglienza che si affaccia sulla via e non è quella che ospitava l’ex Cie — come si capisce per esempio da questa foto pubblicata dal Corriere — e in cui, verosimilmente, sarà riattivato il Cpr.

Il 1° dicembre alle 14.30, in piazzale Piola a Milano, si terrà una manifestazione regionale contro la trasformazione dell’attuale Centro d’accoglienza straordinario (Cas) di via Corelli, alla periferia est della città, in un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr). La mobilitazione è promossa dalla campagna Mai più lager – NO ai CPR, che ha già raccolto un numero notevole di adesioni, tra associazioni, gruppi e realtà di vario genere — tra cui, solo per citarne alcuni, Naga, ASGI e Arci Lombardia — accomunati dall’impegno solidale e anti-razzista. Pochi giorni fa, la campagna ha fatto parlare di sé sulla stampa nazionale per via dei commenti aggressivi e violenti di cui è stata fatta oggetto su Facebook.

Cpr è solo l’ultimo acronimo, vagamente orwelliano (permanenza per il rimpatrio), escogitato per indicare le strutture preposte alla detenzione “amministrativa” dei migranti irregolari, senza permesso di soggiorno, destinati ad essere rimpatriati nei paesi d’origine. È una storia che in Italia inizia vent’anni fa, con la legge Turco-Napolitano, che istituì quelli che allora si chiamavano — altrettanto orwellianamente — Centri di Permanenza Temporanea (Cpt), in cui il migrante sprovvisto di documenti poteva essere trattenuto per 30 giorni, prorogabili su richiesta del questore fino a un massimo di 90.

Ma le tempistiche sono state ritoccate più volte negli anni successivi: 60 giorni con la legge Bossi-Fini del 2002 — che ha ribattezzato i Cpt in Centri per l’Identificazione e l’Espulsione (Cie) — 180 giorni con il “pacchetto sicurezza” firmato da Roberto Maroni nel 2008 — a cui si deve, tra le altre cose, l’introduzione del reato di immigrazione clandestina — fino ai 18 mesi massimi previsti dal decreto legge 89/2011, sempre sotto il governo Berlusconi.

Questo progressivo inasprimento delle misure repressive a danno dei cittadini extracomunitari (di cui i tempi di detenzione nei Cie sono soltanto una parte) ha subito una parziale battuta d’arresto soltanto nel 2013, quando una direttiva europea — recepita dall’Italia nell’ottobre dell’anno successivo — ha riportato il limite massimo a 90 giorni.

Nel frattempo, i Cie sono stati oggetto di numerose campagne di protesta — come LasciateCIEntrare, nata nel 2011 per contestare una circolare ministeriale che vietava l’accesso ai Cie agli organi di stampa — e inchieste parlamentari, che ne hanno evidenziato le problematiche rispetto alla costituzionalità e alla tutela dei diritti umani. Numerose sono state anche le proteste e le rivolte interne ai Cie stessi: la più clamorosa è stata quella dei migranti trattenuti nel Cie di Ponte Galeria, a Roma, quando all’inizio del 2014 in 12 si cucirono la bocca per una settimana. Ma le proteste degli “ospiti” di queste strutture si sono susseguite regolarmente sin dall’inizio della loro istituzione: dal rogo del Cie “Serraino Vulpitta” di Trapani, in cui a fine dicembre 1999 morirono 6 persone, fino ai recenti tentativi di rivolta a Torino.

Anche per questo dal 2011 a oggi l’operatività dei Cie è stata gradualmente ridotta: quelli attualmente operativi sono soltanto 5, mentre diversi sono stati trasformati in hotspot (strutture dedicate all’identificazione subito dopo lo sbarco) o in centri d’accoglienza — com’è appunto il caso del centro di via Corelli a Milano, chiuso nel 2013 in seguito alle rivolte interne e riaperto nel 2014 come Centro d’accoglienza straordinario (Cas).

L’esterno del Cas di via Corelli
L’esterno del Cas di via Corelli

Questa tendenza — che sembrava prendere atto del complessivo fallimento del sistema Cie — è stata clamorosamente invertita dallo scorso governo, quando il ministro Marco Minniti, evidentemente posseduto dallo spirito di Roberto Maroni, ha annunciato l’intenzione di aprire un Cie in ogni regione italiana, per raggiungere una capienza totale di 1600 posti, “preferibilmente fuori dai centri urbani e vicino a infrastrutture di trasporto.” Nonostante alcune voci contrarie anche all’interno dello stesso Pd, dalle parole si è passati ai fatti, con l’approvazione del decreto Minniti-Orlando, che, tra le altre cose, ha ribattezzato i Cie in Cpr — un tentativo, forse, di sviare la memoria pubblica attorno a questi luoghi, troppo legata all’immagine di rivolte clamorose come quella di Ponte Galeria.

Il “decreto sicurezza” voluto da Salvini, convertito in legge ieri dopo il voto definitivo alla Camera, si inserisce perfettamente nel solco del Minniti-Orlando, di cui rappresenta l’ideale prosecuzione, specialmente per quanto riguarda l’istituzione di un “diritto di serie B” per i richiedenti asilo (ragion per cui sono stati avanzati numerosi dubbi sulla sua costituzionalità): all’abolizione del secondo grado di giudizio in caso di ricorso e dell’udienza in primo grado per chi si vede rifiutata la richiesta di protezione, già previste dal decreto Minniti-Orlando, si aggiungono la revoca della cittadinanza in caso di condanna per reati connessi al terrorismo e dello status di rifugiato per i condannati in primo grado per alcuni tipi di reati. Quanto ai Cpr, il decreto sicurezza mantiene il piano di aprirne uno in ogni regione, riportando però i tempi massimi di detenzione da 90 a 180 giorni — come ai tempi dei governi Berlusconi, ma con una rete di strutture detentive (nelle intenzioni del governo) molto più capillare ed estesa sul territorio.

È stato lo stesso Salvini, a luglio, ad annunciare la conversione del Cas di via Corelli, scatenando l’opposizione del Comune guidato da Beppe Sala. Il Cpr — che coprirebbe le esigenze di tutta la Lombardia — dovrebbe aggiungersi ai centri di Gradisca d’Isonzo (un ex Cie convertito in centro d’accoglienza, dove i lavori sono già iniziati), Modena e Macomer, dove a ospitare il Cpr sarà, significativamente, la struttura di un vecchio carcere.

Ma qual è il problema con i Cpr, e perché è importante essere in piazza questo sabato per opporsi alla riapertura di quello di via Corelli? In estrema sintesi, i problemi sono questi:

1) I Cpr sono strutture carcerarie per persone innocenti

Questo è il nodo principale, che riguarda l’idea stessa di Cpr (Cie o Cpt): stiamo parlando di una struttura per la detenzione amministrativa, cioè di persone che possono essere privati della libertà personale anche senza aver commesso alcun reato penale, ma solo perché si trovano in una condizione “irregolare” — senza permesso di soggiorno — che non deriva da una propria colpa, ma dalle leggi e dai regolamenti vigenti. Per questo, le associazioni che storicamente si sono battute contro questo tipo di strutture ne hanno denunciato a più riprese la natura incostituzionale — in violazione dell’articolo 13, che ammette una limitazione della libertà extra-giudiziale solo in casi di necessità e urgenza, non come prassi. Così, senza una solida base legislativa, i Cpr (e gli hotspot) sono di fatto un “buco nero” dei diritti, dove in molti casi le garanzie sono meno di quelle riconosciute ai detenuti in carcere.

A questo si aggiungono le condizioni materiali e igieniche delle strutture, spesso completamente inadeguate. Tra le numerosissime denunce e testimonianze che si possono leggere o guardare sulle condizioni di vita all’interno dei Cie, citiamo l’ultimo rapporto presentato al Parlamento dal Garante dei detenuti, a fine ottobre, in cui si riscontrano fattori di “grave criticità” che “pregiudicano pesantemente la qualità della” nei 4 Cpr presi in esame:

“A distanza di poco più di un anno dall’entrata in vigore del decreto [Minniti-Orlando, ndr], va purtroppo rilevato che le rinnovate espressioni di impegno a favore dell’assoluto rispetto dei diritti fondamentali sono rimaste dichiarazioni di principio, cui non hanno fatto seguito un effettivo miglioramento delle condizioni di vivibilità e una diversa impostazione organizzativa delle strutture.”

Il Viminale, in tutta risposta, ha dato la colpa di questa situazione di degrado ai “continui e violenti comportamenti degli ospiti in danno dei locali e degli arredi.”

2) I Cpr non servono neanche allo scopo che si prefiggono

La decisione del governo Gentiloni di invertire bruscamente la rotta tornando a un modello capillare di detenzione amministrativa nei Cie/Cpr ha stupito molti, non solo per le problematiche legate alla tutela dei diritti umani, ma anche per l’inefficacia conclamata del sistema. Sappiamo bene che le deportazioni espulsioni di massa promesse dal centrodestra in campagna elettorale non sono realizzabili — per via del loro costo elevato e per la difficoltà di raggiungere accordi con alcuni paesi d’origine. Ha finito per riconoscerlo lo stesso Salvini, che a settembre ha dichiarato di puntare a un obiettivo di 4 mila espulsioni all’anno, in linea — anzi, leggermente al ribasso — con quello che si è fatto negli ultimi anni (5 mila rimpatriati nel 2016, 6 mila nel 2017).

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La Commissione diritti umani del Senato — quella che ora è presieduta da una senatrice leghista che esulta quando le ruspe abbattono i campi rom — certificava a febbraio 2016 che solo il 50% delle persone trattenute nei Cie/Cpr viene effettivamente rimpatriato. Sorvolando per un momento sulla natura spesso arbitraria e ingiusta di questi rimpatri, quello che emerge dai dati è che per la metà dei detenuti nei Cpr si tratta di una privazione della libertà del tutto fine a se stessa, che con il decreto sicurezza potrà di nuovo essere prolungata fino a 180 giorni.

3) Smantellare centri d’accoglienza per aprire Cpr ostacola l’integrazione

La chiusura del Cas di via Corelli, prevista per il 15 novembre, è stata rinviata per la difficoltà di trovare una sistemazione alternativa per le circa 370 persone attualmente ospitate nel centro. Almeno una cinquantina di richiedenti asilo, però, se ne sono andati via spontaneamente: “Le persone che vanno via finiscono per trovare sistemazioni di fortuna o per dormire per strada, in stazione Centrale. Hanno paura di essere trattenute nel centro ed espulse,” ha riferito lo scorso 10 novembre al Giorno un dipendente di Gepsa, la società francese che ha in gestione il centro — i cui lavoratori, peraltro, rischiano il posto.

Al momento non si sa ancora dove saranno portati i migranti rimasti — “trattati come pacchi postali,” ha denunciato l’assessore alle politiche sociali Majorino. Molti di loro hanno intrapreso percorsi di integrazione — o, molto più semplicemente, lavorano in zona — che un arbitrario spostamento altrove rischia di interrompere.

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Questi effetti “collaterali” della riapertura di strutture detentive al posto dei centri d’accoglienza — quello di via Corelli non è l’unico caso — è in realtà perfettamente coerente con la linea d’azione delineata finora dal ministero dell’Interno, che si basa su un circolo vizioso: rendere sempre più difficile la permanenza regolare dei cittadini extra-comunitari in Italia → generare irregolarità → alimentare il conflitto sociale contro gli “irregolari” → adottare misure sempre più repressive (detenzione amministrativa e rimpatri forzati) per “risolvere” un problema che le stesse norme hanno provocato. Vanno in questa direzione i tagli ai fondi per l’accoglienza — che hanno creato già situazioni emergenziali in centri d’accoglienza già critici, come il Cara di Mineo — e lo smantellamento graduale del sistema Sprar, quello dell’accoglienza diffusa, l’unico che in questi anni di disastrose politiche migratorie ha dato qualche speranza di buona riuscita.

Opporsi alla riapertura dei Cpr — non solo a Milano: anche in altre località sono state lanciate campagne simili — significa innanzitutto denunciare il meccanismo perverso che sta alla base di questi provvedimenti, che mettono il razzismo istituzionale sotto la maschera ingannevole della “sicurezza.” Significa manifestare a gran voce il proprio dissenso di fronte alle ingiustizie e alle violazioni dei diritti umani (e costituzionali) che questi centri di detenzione da vent’anni portano con sé: davvero, non possiamo cucirci la bocca.


Tutte le foto di Elena Buzzo.

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