‘O Cantiere: il fallout nucleare lasciato dalla chiusura dell’Ilva di Bagnoli
Un solo luogo di archeologia industriale diventa un nuovo punto di partenza per raccontare il paesaggio che lo circonda.
Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.
Questa settimana: ’O Cantiere di Stefano Santos, un reportage fotografico sul centro siderurgico dismesso di Bagnoli.
Il progetto fotografico di Stefano Santos abbraccia il complesso di una realtà particolare, cercando di raccontarne tutte le diverse sfaccettature possibili. Così un solo luogo di archeologia industriale diventa un nuovo punto di partenza per raccontare il paesaggio che lo circonda, i giovani e lo sport, gli anziani, le attività che coinvolgono la società, il degrado e la rinascita. Stefano accompagna il reportage fotografico con un lungo testo che racconta la genesi di questo luogo, di come l’attività politica, economica e sociale abbiano influenzato per diversi decenni gli abitanti della zona — a partire dal 1910, anno di costruzione dell’acciaieria.
In questa rubrica abbiamo già avuto modo di parlare, con tutte le differenze del caso, di una realtà industriale. Il tuo reportage parte da una analisi storica del centro siderurgico di Bagnoli, oggi dismesso, per raccontare il presente. Cosa ti ha spinto ad approfondire questo aspetto in particolare?
Ho iniziato questo progetto nel 2015, quando il clima era dominato dal dibattito sul commissariamento dell’area siderurgica e il decreto “Sblocca Italia.” Il mio desiderio era quello di documentare una realtà che di lì a poco sarebbe cambiata radicalmente – almeno così credevo – contrapponendo un “prima” che in pochi anni sarebbe diventato un “dopo,” rappresentato da una Bagnoli finalmente rinnovata. Sono passati più di tre anni, e questo primo sentimento di urgenza ha lasciato posto a un approccio più ragionato, maggiormente concentrato sui processi storici che hanno fatto sì che nel tessuto urbano di Napoli si creasse una sorta di “Ground Zero” reminiscente della letteratura post-apocalittica, rimasta intatta per più di vent’anni.
O’ Cantiere, il titolo del progetto, sintetizza lo stato di permanente incertezza di un luogo e delle persone. È stato sempre così?
‘O Cantiere deriva da uno dei primi soprannomi usati dai napoletani per riferirsi in modo familiare al centro siderurgico, che risale già ai primi anni del Novecento. A prevalere era la speranza per un rinnovamento radicale della città, tanto che il Mattino, in occasione dell’inaugurazione della fabbrica scriveva “una grande festa del lavoro napoletano.” Questo sentimento è rimasto pressoché intatto durante la Seconda Guerra Mondiale per durare fino agli anni Sessanta – periodo in cui le parole dominanti nel discorso sulla fabbrica erano “espansione,” “sviluppo” e “crescita.” Questa tendenza si invertirà a partire dagli anni Settanta, quando tramonteranno le certezze legate al miracolo economico e con la contrazione della domanda mondiale d’acciaio, fino alla definitiva chiusura della fabbrica che ha effettivamente “congelato” la situazione fino i giorni nostri.
Hai avuto modo di interagire con operai che nella fabbrica ci hanno lavorato. Cosa ricordano dei tempi passati, del lavoro, e che futuro vedono per i loro figli, ora che la fabbrica è stata dismessa?
Uno degli elementi che spicca nelle mie conversazioni con loro è sicuramente l’orgoglio. Il lavoro all’Ilva era considerato come l’aspirazione massima per i giovani dei quartieri attorno al centro siderurgico, da un lato perché assicurava un sicuro accesso alle file della classe media, dall’altro per continuare una tradizione che aveva visto tre generazioni di uomini di una famiglia impiegati al “cantiere.” Ma non solo: dall’insieme dei racconti delle esperienze quotidiane e lavorative emerge anche una forte unità del gruppo e un forte attaccamento al lavoro, che è coinciso con una lotta sindacale spesso dolorosa condotta al fine di rendere il centro siderurgico di Bagnoli al passo con i tempi e con le tecnologie, come mi è stato raccontato dal signor Sannino, addetto alla laminazione: “Quando abbiamo messo il TNA (un impianto per la laminazione molto avanzato per i tempi, ndr) io pensavo che quest’esperienza mi avrebbe portato salute e denaro, mentre invece ho perso soltanto salute.”
Il processo di dismissione ha coinciso con la rottura progressiva di questa coesione, nonché di quella continuità generazionale di cui parlavo prima, con loro grande rammarico. Molti operai infatti hanno i propri figli disoccupati o emigrati altrove, e spesso è la pensione da metalmeccanico la prima fonte di sostentamento per molte famiglie. Il perdurante fallimento della bonifica e della riconversione – in cui c’è stato il tentativo negli anni degli ex lavoratori di partecipare alla lottizzazione – non hanno fatto che acuire queste preoccupazioni.
In luoghi con una presenza industriale forte come quella di Bagnoli, spesso le persone si identificano direttamente con quella realtà. Oggi Bagnoli cos’è?
I territori di Bagnoli e di Cavalleggeri Aosta si sono sviluppati nei decenni per accomodare le necessità del centro siderurgico. Per questo motivo con la dismissione della fabbrica si è andato a creare una sorta di limbo, in cui la presenza ingombrante dell’area dismessa ha formato una “gabbia” intorno a questi territori, e ciò vale particolarmente per il quartiere di Cavalleggeri Aosta, ad alta densità abitativa e stretto tra la “zona di esclusione,” edifici militari e linee ferroviarie, e che per questo non ha mai perso la sua caratterizzazione di quartiere dormitorio. A servizio, però, di una fabbrica che non esiste più.
C’è un futuro per Bagnoli?
Per parlare di un futuro per Bagnoli, un discorso complessivo di riconversione dell’area è fondamentale. Gran parte dei tentativi fatti nel corso degli anni per la conversione di parte dell’area dismessa sono falliti proprio perché episodici e mai inseriti in una strategia più ampia, come il caso della Porta del Parco, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere l’entrata trionfale del Parco Urbano, ancora oggi chiuso da cancelli; quello del Turtle point, dedicato alla cura delle tartarughe Caretta caretta e mai utilizzato proprio perché costruito all’interno della “zona di esclusione;” il caso del Parco dello Sport, pronto all’utilizzo e ancora oggi chiuso al pubblico, ma non all’appetito dei ladri e dei vandali. La riuscita di una strategia comprensiva dipende però dall’incontro delle componenti che finora si sono scontrate sul discorso del commissariamento: le rappresentanze dei vari soggetti sociali che operano sul territorio, la città metropolitana di Napoli e il governo nazionale. Senza però dimenticare che dovranno essere gli abitanti del territorio ad avere il ruolo maggiore per determinare la direzione da imprimere alla nuova Bagnoli.
Da una parte c’è un documento che raccoglie la tua ricognizione storica dell’area, dall’altra il tuo lavoro fotografico si concentra sul presente.n Allargando il campo di indagine sei andato a trovare giovani ed anziani, ruderi e nuove costruzioni, paesaggio e dettagli, e così via. Il lavoro è vasto e sembra non avere un punto specifico di interesse. L’approccio documentale è stato prettamente storico, come ti sei approcciato sul piano fotografico invece?
Mi piace paragonare la chiusura del centro siderurgico all’esplosione di una bomba atomica che ha creato un fallout nucleare, che si estende ben al di là del punto di detonazione e che permane per un lungo periodo di tempo. Per questo, nel costruire questa storia fotografica, ho voluto ricercare tutte quelle tracce che potessero rimandare all’evento “dismissione del centro siderurgico,” senza necessariamente insistere su un determinato luogo o un determinato contesto. Ed è il motivo per cui in questo reportage possono coesistere una serata in discoteca, un centro per disabili e uno shooting fotografico per una comunione.
Stefano Santos (Napoli, 1993) è un fotografo documentario. Ispirato da un background di studi giuridici e giornalismo, privilegia un approccio analitico e approfondito nel raccontare le storie. Lo attirano particolarmente quei temi in cui la storia, le questioni sociali e l’identità culturale di un dato territorio appaiono fondersi insieme. Attualmente è basato a Milano.
Segui Diaframma su Facebook.
Per ricevere tutte le notizie da the Submarine, metti Mi piace su Facebook, e iscriviti al nostro gruppo.