Per sostenere lo sviluppo della mobilità ciclopedonale bisogna prima risolvere il problema della sicurezza stradale e poi offrire degli incentivi a chi sceglie di spostarsi in bici anziché in automobile.
Uno degli ambiti della società più difficili da decarbonizzare è quello dei trasporti, che secondo i dati della World Bank (2014) è responsabile del 20% delle emissioni di gas serra di tutto il mondo.
Per quanto riguarda il trasporto merci, non vi è altra soluzione che sostituire — per quanto possibile — i combustibili fossili utilizzati dai velivoli con i meno impattanti biocombustibili, rimodernare le navi e i camion tradizionali dotandoli di motore elettrico e potenziare la rete ferroviaria per adibirla ancora di più al trasporto merci, riducendo quello su gomma.
Parlando invece degli spostamenti della popolazione, sulle lunghe distanze sarà necessario costruire una nuova rete di distribuzione per le auto elettriche, in modo da rimpiazzare i distributori di diesel e benzina, mentre su distanze minori bisognerà costruire un nuovo modello di viabilità basato sull’interscambio tra ciclabilità e trasporto pubblico.
La bicicletta infatti sembra essere il mezzo di trasporto ideale con cui risolvere alcuni dei problemi più gravi dei moderni centri urbani, tra cui la sicurezza stradale, il traffico automobilistico, l’inquinamento da polveri sottili e da emissioni climalteranti.
La bicicletta infatti non inquina e occupa uno spazio di carreggiata molto minore rispetto ad un’automobile, è decisamente più leggera e non potendo raggiungere grandi velocità risulta un mezzo sicuro sia per chi la guida che per gli altri utenti della strada.
L’amministrazione di una grande città trae grandi vantaggi se una grossa fetta della popolazione utilizza la bici come principale mezzo di spostamento: il traffico è più scorrevole, le strade sono meno pericolose e l’aria è più pulita. Di conseguenza diminuisce la spesa pubblica derivante dai ricoveri ospedalieri per le patologie respiratorie causate dai gas di scarico e per gli incidenti stradali (nel 2016 le spese statali per gli incidenti stradali hanno raggiunto il costo sociale di oltre 17 miliardi di Euro, bruciando circa il 2% del PIL).
Insomma, non è un caso che diverse metropoli del Canada, degli Stati Uniti, dell’Europa, della Cina e di molti altri paesi stiano cercando di invogliare una parte sempre maggiore della cittadinanza a spostarsi in bicicletta anziché in automobile.
Per favorire questa transizione, gli stati e le regioni di tutto il mondo hanno dato il via alla costruzione di piste ciclabili e altre infrastrutture che hanno effettivamente dato una spinta alla mobilità leggera, in Italia però il numero di persone che utilizza la bici come principale mezzo di spostamento non sta aumentando.
Infatti, secondo i dati dell’Osservatorio nazionale Focus 2R, tra il 2008 e il 2015 i chilometri di piste ciclabili in Italia sono aumentati quasi del 50%, ma non hanno attirato nuovi ciclisti.
Eppure, secondo il responsabile ai trasporti di Legambiente, Alberto Fiorillo, la domanda di mobilità sostenibile da parte della popolazione non manca. Dunque il problema non è la scarsezza di piste ciclabili, ma l’esistenza di altri fattori che limitano il numero di ciclisti.
Allora quali sono quei fattori e quelle circostanze che invogliano o che frenano la popolazione all’utilizzo della bicicletta al posto del mezzo motorizzato?
Se lo sono chiesto i ricercatori Piet Rietveld e Vanessa Daniel, autori di uno studio molto quotato in tema di mobilità ciclistica.
I due professori hanno analizzato le caratteristiche delle città olandesi con la più alta quantità di ciclisti e hanno scoperto che a disincentivare l’utilizzo delle due ruote è principalmente la scarsa sicurezza stradale: il rischio di essere coinvolti in un incidente stradale è percepito al punto tale da convincere molti potenziali ciclisti a lasciare a casa la bici per utilizzare anche loro l’automobile.
In effetti è innegabile che in Italia la scarsa sicurezza stradale vada a danneggiare soprattutto chi si sposta in bicicletta: il rapporto di Fiab “Safety in Numbers” mostra chiaramente che nel nostro paese i ciclisti sono molto di meno rispetto agli altri stati europei, eppure il numero di ciclisti deceduti in incidenti stradali è superiore alla media europea – questo significa che in Italia i ciclisti sono esposti ad un rischio di incidente stradale molto più elevato del normale.
In effetti l’architetto urbanista Matteo Dondè, il guru italiano della mobilità ciclabile e pedonale, ci aveva raccontato che le strade del nostro paese sono state e vengono ancora progettate a misura di mezzi pesanti, anziché di pedoni e biciclette, che si ritrovano a viaggiare in carreggiate ostili alla loro modalità di movimento.
Nelle città italiane circolano molte più automobili rispetto ad altre città europee, col risultato che spesso le vetture vengono parcheggiate laddove non si potrebbe: sui marciapiedi e sulle piste ciclabili, dove ostruiscono il passaggio di pedoni e biciclette, oppure in prossimità degli incroci e in doppia fila, dove determinano un calo di visibilità degli altri utenti della strada, aumentando il rischio di incidenti.
Nel nord America e soprattutto nel nord Europa, dove il dibattito sul pericolo degli incidenti è iniziato già negli anni ’50, il problema è stato affrontato realizzando una vera e propria cultura (se non una scienza) della sicurezza stradale.
In particolare, è stato sviluppato il concetto di traffic calming, ossia la tecnica di progettare il tessuto stradale in modo tale che la sua morfologia imponga fisicamente agli automobilisti di viaggiare a velocità moderata – la letteratura scientifica infatti indica chiaramente che per ridurre il rischio e la violenza dei sinistri è necessario ridurre la celerità di marcia delle vetture.
Per raggiungere questo scopo, nei punti più critici del reticolo stradale vengono integrati particolari elementi architettonici – quali ad esempio dossi, attraversamenti pedonali rialzati, incroci con curve strette, isole salvagente, restringimenti di carreggiata e chicane (brevi curve utilizzate per interrompere lunghi rettilinei) – e nelle aree più a rischio viene apposto il limite normativo di 30 chilometri orari.
È proprio da questa idea che nascono le zone 30, che non solo riducono la pericolosità delle strade, ma anche il rumore e l’inquinamento provocati dal traffico, migliorando così la qualità della vita dei residenti.
In Italia le zone 30 non sono molto diffuse perché ancora riscuotono poco successo tra la popolazione, ma in Europa sono molto apprezzate. La Gran Bretagna ne è praticamente tappezzata, in Germania il 70-90% degli abitanti delle grandi metropoli già vive in zone 30 e l’amministrazione di Parigi vorrebbe riqualificare tutta la città in zona a bassa velocità entro il 2020.
I risultati sono evidenti: in questi paesi il numero di incidenti è decisamente inferiore rispetto agli altri e di conseguenza sono molte di più le persone che utilizzano la bicicletta come principale mezzo di trasporto.
Ma non è solo la maggiore sicurezza stradale a fare la differenza.
Lo studio di Rietveld e Daniel rivela che il modo più immediato per incentivare l’uso della bicicletta è agire a livello amministrativo per renderla un mezzo di trasporto economicamente vantaggioso rispetto alle automobili.
Dopotutto, nel nord Europa l’incremento della mobilità ciclopedonale è passata anche per la riduzione del numero di posti auto esistenti e da una più severa tariffazione dei rimanenti, unitamente allo stanziamento di incentivi e sgravi fiscali per chi acquista una bicicletta e chi ne dimostra l’utilizzo esteso, ad esempio per raggiungere il posto di lavoro.
Ha collaborato all’articolo la pagina Facebook Piste ciclabili fantastiche e dove trovarle.
? Leggi anche i nostri articoli sulle mappe degli incidenti stradali a Milano, Roma e Napoli.
in copertina, foto CC ProtoplasmaKid
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