Ogni volta che il Movimento 5 Stelle si trova in difficoltà si rifugia sempre nella burocrazia.
È un riflesso naturale, che viene da un mondo di autorganizzazione molto nerd, che prevede per qualsiasi operazione un livello di micromanagement da azienda familiare.
Azienda familiare, sì: perché questa è il fondamentale differenza tra lo statuto del Movimento 5 Stelle e quello di un partito — la completa impossibilità di metterne in discussione qualsiasi punto. Questo rende i parlamentari del partito della Casaleggio Associati dipendenti dell’organizzazione a tutti gli effetti — in un certo senso sue vittime — e non parte di un organismo politico.
È questo il destino a cui vanno incontro i cinque franchi tiratori del partito che sono usciti dall’aula del Senato mentre si votava la fiducia per il dl “Sicurezza,” voluto dalla Lega per garantire un’ulteriore deriva razzista nel paese, sia a livello istituzionale che emotivo.
Il collegio dei probiviri è uno degli organismi previsti dallo Statuto del movimento, ed è composto da tre membri, scelti con un voto sulla piattaforma Rousseau tra almeno cinque nomi, scelti dal Garante — che è Beppe Grillo — che “si siano distinti per imparzialità, saggezza e rettitudine morale.” I criteri e le linee guida che i probiviri utilizzano per arrivare a un verdetto sono, nel migliore dei casi, nebulosi.
In questo momento i tre probiviri sono le parlamentari Nunzia Catalfo e Paola Carinelli, insieme al consigliere della regione Veneto Jacopo Berti. A loro lo statuto conferisce un potere gigantesco: possono valutare sanzioni disciplinari che vanno dal richiamo fino all’espulsione. Il membro del Movimento finito nel loro mirino, secondo lo Statuto del Movimento, ha la “facoltà di far pervenire memorie scritte ed eventuale documentazione a sostegno delle proprie ragioni entro il termine perentorio di 10 giorni.” Il Collegio ha poi tre mesi per chiedere ulteriori chiarimenti, archiviare il procedimento, o sanzionare i traditori.
Lo Statuto descrive l’intero processo in un finto legalese che potremmo descrivere, in modo molto caritatevole, ridicolo.
Se non vi è bastato, potete calarvi il testo completo dello statuto a questo link.
I membri del M5S che ricoprono cariche pubbliche possono essere espulsi per molte piú ragioni oltre al mancato rispetto del Codice Etico del partito, tra cui un super generico “mancanze che abbiano provocato o rischiato di provocare una lesione all’immagine od una perdita di consensi per il MoVimento 5 Stelle, od ostacolato la sua azione politica,” che permette sostanzialmente di espellere chiunque dal partito, per qualsiasi ragione.
Lo statuto prevede espressamente l’espulsione in caso di fuoco incrociato — “mancata cooperazione e coordinamento con gli altri iscritti, esponenti e portavoce, anche in diverse assemblee elettive, per la realizzazione delle iniziative e dei programmi del MoVimento 5 Stelle, nonché per il perseguimento dell’azione politica del MoVimento 5 Stelle.”
Sarà interessante vedere se i cinque ribelli cercheranno di rivendicare la propria libertà di espressione, garantito dall’articolo 67 della Costituzione, mettendo il partito in una posizione buffa, o se la cosa verrà messa a tacere non appena la fiducia uscirà dal ciclo mediatico.
Non c’è niente di “movimentistico,” auto–organizzato o spontaneo in tutta questa trafila: il paragone piú vicino che ci viene in mente è quello di un ingiusto provvedimento disciplinare all’interno di una grande azienda, contro cui un lavoratore non può nulla. Come si sia spacciato questa roba come una garanzia di democrazia e onestà, è difficile da capire.
Il Movimento 5 Stelle ha spacciato ai propri sostenitori la propria organizzazione strettamente verticistica come necessaria per garantire i meccanismi di “democrazia diretta” in un contesto ampio, o per meglio dire — anche se il vocabolo è tabù — da partito. Ma i partiti, quelli veri, sono costruiti in maniera diametralmente opposta: per garantire un funzionamento strutturale, ma anche un rinnovamento e una discussione interna.
Malgrado il rimescolamento di carte dello scorso inverno, il M5S è legato in maniera indissolubile a Davide Casaleggio, vero padrone di casa grazie al totale controllo sulle macchine che fanno funzionare il partito; la figura di Garante dovrebbe essere elettiva ma è ancora ricoperta da Beppe Grillo — e non sembra esserci nessuna fine in vista per il suo ruolo nel partito, che a volte viene minimizzato come solo simbolico e a volte viene incensato come di grande autorità, in base alle necessità del giorno.
In effetti, l‘idea di un collegio di probiviri non è inedita in Italia, e la sua provenienza mette piú chiarezza sulla vera struttura del M5S: il partito padronale di Silvio Berlusconi, prima sia sotto forma di Popolo della Libertà che come Forza Italia ha sempre fatto affidamento su un collegio di probiviri per “tenere in riga” i propri parlamentari.
Quando il Movimento ha presentato il nuovo Statuto, Di Maio aveva annunciato che era “finita l’epoca dell’opposizione:” poi — per una serie di scherzi della Storia — il Movimento si è trovato non solo al governo, ma nella posizione complessa e carica di responsabilità di socio di maggioranza di un governo di coalizione.
Dopo aver fatto il proprio patto da gangster sul dl “sicurezza,” oggi il Movimento incassa una vittoria di Pirro: l’accordo sulla prescrizione si è fatto, ma la riforma entra in vigore tra più di un anno, lasciando a questo governo — o al prossimo, quello che potrebbe essere della sola Lega — ampio tempo per disinnescare la finta riforma.
Ma se al Movimento non interessa il gigantesco costo umano di lasciar procedere il dl “sicurezza,” dovrebbe almeno provare a fare i conti coi limiti della propria struttura interna — ammesso abbia ancora il vago interesse di sembrare una forza politica del mondo reale e non uno schema Ponzi della politica.
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