“La musica non è solamente tastiere o voce, ma è anche il rumore di quando mangiamo, quello di una lavatrice, l’aprirsi di una porta e il chiudersi di un’altra, la musica è suono e il suono fa parte di tutta la nostra vita.”
Ha venticinque anni, è donna, il suo jazz dal carattere intimista si trasforma spesso in soul, nel 2018 ha pubblicato un album che ha deciso di registrare live in teatro. Il suo primo EP è intitolato come lo standard jazz con cui si apre, Blame It On My Youth, scritto ormai quasi un secolo fa e cantato da tutti i volti noti della musica che da New Orleans a Chicago ha rivoluzionato quegli Stati Uniti in cui lei stessa è cresciuta.
Originaria di Roanoke, Virginia, dove è nata e ha vissuto con la sua famiglia adottiva, Judi Jackson ha preso in mano il suo primo microfono in chiesa e da lì la sua voce non si è più arrestata.
Sarà a Milano il 3 novembre, al teatro della Triennale, per la rassegna Jazzmi (in città dall’1 al 13 novembre), con un concerto dedicato a Nina Simone e che riprende il suo album di debutto Live in London. Lei lo chiama “journey”, viaggio, quello che la ha portata alla composizione musicale, così le abbiamo chiesto di raccontarcelo, per sapere da dove è partito e dove vorrebbe arrivare.
Iniziamo dalla tua famiglia: tu stessa sottolinei la presenza di un legame tra la tua musica e i tuoi genitori, i tuoi due padri. In che modo la famiglia ha influenzato il tuo lavoro?
Dal momento che l’arte riflette la vita e la vita riflette l’arte, la mia famiglia di origine ha avuto un forte impatto sul mio lavoro, perché loro sono stati la prima musica che ho conosciuto. La musica non è solamente tastiere o voce, ma è anche il rumore di quando mangiamo, quello di una lavatrice, l’aprirsi di una porta e il chiudersi di un’altra, la musica è suono e il suono fa parte di tutta la nostra vita. Quindi l’essere stata adottata, ma allo stesso tempo conoscere i miei genitori biologici, anche se non ho una relazione con le loro tradizioni, mi ha insegnato a pensare diversamente, a esplorare e a prendere le distanze, che è una cosa che non credo debba avere una connotazione negativa, perché credo che il distacco e l’indipendenza in certe situazioni ti diano la libertà di essere un’artista autentica.
Hai usato la parola libertà: nei tuoi pezzi è molto presente questo sentimento, come è presente l’aspetto spirituale.
Assolutamente, e la spiritualità, come ogni altra cosa, ha bisogno di pratica e di tempo. Il mio viaggio spirituale è stato lungo, e ancora deve continuare, ma non mi pento di nessuna delle decisioni che ho preso perché hanno contribuito tutte a formare il mio io più autentico.
E come è iniziato questo viaggio, il tuo rapporto con la musica?
È sicuramente iniziato in chiesa. E poi è diventata una carriera professionale, la mia carriera accademica alla University of Mary Washington, dove ho studiato teatro musicale, danza, recitazione, i tre fattori chiave delle arti performative. Poi mi sono trasferita a New York, perché volevo dedicarmi al teatro e alla musica ancora di più: sono stata lì dai 19 ai 21 anni. Sono arrivata da sola, senza un soldo, e ho fatto in modo che tutto funzionasse per potermi mantenere. Ho creduto, e ho dovuto credere, fortemente in me stessa, ma anche nell’universo e nelle forze che lo guidano.
C’è stato anche un incontro, quello con il trombettista Wynton Marsalis, che ha avuto un forte impatto su di te. Come è avvenuto?
Esatto, quello è avvenuto quando ero ancora al liceo, nella mia città, Roanoke. Ero nel backstage di un suo concerto, al Jefferson Center, ed è successo tutto in modo naturale. Il mio mentore mi aveva portata con sé per scrivere un articolo per il giornale della scuola, e lui era lì. Così Wynton mi ha chiesto cosa mi piacesse fare e io gli ho risposto che mi piaceva scrivere e studiare – a scuola andavo molto bene – e lui allora mi ha detto “se ti piace cantare e ti piace anche studiare ti manderò un po’ di musica e tu mi farai sapere che ne pensi!” E così è stato, quel pacco che arrivò pieno di dischi è stato essenziale per la mia musica, ne è stata la quintessenza! Ho imparato moltissimo, è stata una grossa fonte della mia cultura musicale. Prendevo appunti su ogni disco che ascoltavo, su Fats Waller, su Blossom Dearie e anche sugli album di Marsalis. Quindi quello è stato un vero punto di svolta per me, e della mia educazione.
Ora invece vivi a Londra, dove hai deciso di registrare il tuo album di debutto, cosa ti ha portata lì?
Una serie di incontri, a partire da New York, che mi hanno poi fatto conoscere il mio manager Dan. Così adesso vivo a Londra: la cultura è molto diversa qui, ma era tempo di spostarsi, di provare qualcosa di nuovo. Finora è stato un viaggio bellissimo, sempre guidato dalla musica: ora vedremo dove la musica mi porterà in futuro.
Proprio adesso sei nel pieno del tuo tour europeo…
Esatto, finora sono passata da undici città, vediamo come sarà Milano… È la mia prima volta in Italia.
Prima volta in Italia in assoluto: hai qualche aspettativa?
No, nessuna aspettativa in realtà. Credo che l’aspettativa ci porti via la gioia. Però sono piena di entusiasmo, mi sto preparando e credo che riceverò un’ottima accoglienza.
Qual è stato il motore che ti ha portato a registrare Live in London e il tuo primo EP Blame It On My Youth?
Volevo semplicemente seguire il mio cuore, ognuno dei due è un riflesso di dov’ero e com’ero nel momento in cui li ho scritti.
C’è un’eco di quello che dici in “Still,” nella frase «listen to everyone around us, don’t let anybody steal our peace»: sembra un messaggio spirituale, intimista, ma allo stesso tempo può sembrare un messaggio politico e sociale. Volevi che lo fosse?
Esatto, “Still” è una canzone scritta in un momento preciso, è stata scritta il giorno dopo le primarie, e poi il mondo ha scoperto che Trump era stato eletto. C’era un clima particolare, sentivo che le persone erano profondamente emotive in quel momento. E così ho scritto il pezzo insieme a George Moore, il mio produttore, per enfatizzare che “still”, “ancora” e per sempre saremmo stati ed eravamo tutto quello che eravamo stati fino a quel momento. Ma nella mia continua evoluzione da artista non riesco a dare forma al caos della politica, perché la politica è stata quasi sempre solo dannosa, distruttiva e dolorosa, mentre io cerco la verità, l’onestà e non il giudizio. La politica e la spiritualità non sono mai andate d’accordo, come la Chiesa e lo Stato. La musica è una medicina, mentre la politica non ha mai guarito. Per questo cerco di concentrarmi più sulla musica che sulla politica.
Scrivi però dei testi che hanno dei tratti filosofici, come “Waves,” in cui dici «treading water is no way to survive»: cosa vuole trasmettere questo verso?
Io sono una forte sostenitrice della salute mentale — credo che sia un aspetto della persona che non è preso seriamente come dovrebbe, anche se ultimamente vengono pubblicati sempre più articoli e studi. Abbiamo comunque ancora molta strada da fare. Ci sono problematiche legate alla salute mentale che non trattiamo come fossero diabete o altre malattie fisiche che invece curiamo normalmente, che colpiscono soprattutto la carriera di un’artista, la cui esistenza è basata su moltissime insicurezze che non si possono controllare. E così i nostri alti e bassi sono la quiete e il turbamento delle onde (le sue Waves, ndr), l’alta e la bassa marea, la forza con cui le onde ti respingono: la salute è trovare la propria stabilità, in mezzo alle onde. Il galleggiamento invece è estenuante, perché ti tiene fermo in un posto, non ti muovi né avanti né indietro. È semplicemente una condizione in cui cerchi di rimanere per non annegare. E questa non è una condizione in cui vivere: devi nuotare in avanti, devi prendere decisioni, decisioni coscienti per sentirti bene con te stessa.
Questo riporta alla figura di artista a cui dedichi questo tributo del 3 novembre in Triennale, Nina Simone: a cosa si deve questa tua scelta?
Lei mi ha influenzata moltissimo. Ha dovuto lottare con la salute mentale, era una grande lavoratrice, una lavoratrice donna di colore in un periodo in cui c’erano molti più problemi per le donne di colore di quanti non ce ne siano ora, soprattutto nel mondo dell’arte. Mi è stata di grande ispirazione, è la migliore!
Quando sei in teatro quale pubblico ti aspetti di trovare? Quale dovrebbe essere il tuo pubblico?
Esistono molti tipi di musica. C’è la musica su cui fare allenamento, la musica con cui cucinare, quella con cui lavare i piatti, quella per pulire il tappeto, musica con cui dormire… Io vorrei fare musica assoluta, che è musica da ascoltare. Non c’è un fine, è tutto qui quello che vorrei fare, e voglio farlo solo per amore dell’arte. Vorrei che ci si potesse sedere, chiudere gli occhi e ascoltare un disco come un’opera d’arte. Chiunque sia interessato al mio viaggio può farne parte. Quello sarà il mio pubblico.
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