Abbiamo parlato con Simone Fana, autore di Tempo Rubato, un saggio che affronta l’argomento “sulle tracce di una rivoluzione possibile tra vita, lavoro e società”
Oggi i lavoratori dei trasporti sono in sciopero, proclamato dai sindacati Sgb. Ecco le richieste: reintroduzione dell’articolo 18, pensione a 60 anni o dopo 35 anni di contributi, diminuzione degli orari di lavoro a parità di salario. Cerchiamo di capire meglio quest’ultima richiesta.
Il tempo è denaro. Soprattutto quando si affitta il proprio tempo per guadagnarsi da vivere e nutrirsi — in altre parole: quando si lavora da dipendenti. Nell’Italia di oggi il tempo massimo di lavoro settimanale è di 40 ore, in genere diviso in 8 ore al giorno. Non è sempre stato così però: nei primi anni del Novecento le condizioni di lavoro erano molto più dure di quelle a cui siamo abituati. Una regolamentazione definitiva sull’orario di lavoro venne varata solo nel 1919, dopo decenni di scontri sindacali anche cruenti. Un esempio è la lotta per le otto ore delle mondine, nel 1906:
Il tempo e le lotte dei lavoratori però hanno fatto la sua parte, fino ad arrivare al Regio decreto del 1923, che stabiliva la durata dell’orario lavorativo massimo in 8 ore giornaliere e 48 settimanali. Il decreto venne approvato durante i primi mesi del governo Mussolini, ma in realtà la proposta è precedente, venendo dal padre del socialismo italiano, Filippo Turati. La situazione rimase sostanzialmente inalterata per decenni e, con minori modifiche, l’orario di otto ore quotidiane è in vigore ancora oggi.
Ciò non significa però che questo orario non possa essere ridotto.
Se si lavorasse 10 ore, sembrerebbe assurdo volerne lavorare 8? Probabilmente sì — se non assurdo, con ogni probabilità agli occhi di un lavoratore di oggi sembrerebbe semplicemente inevitabile: le lotte per il lavoro sono infatti così spente rispetto agli scorsi decenni che parlare di miglioramenti sembra una presa in giro — la maggior parte delle lotte di oggi sono per conservare qualcosa, come la chiusura di una fabbrica, piuttosto che per reclamare diritti non ancora concessi.
C’è però chi la pensa diversamente — e c’è anche chi ha provato a mettere in pratica esperimenti diversi. A Göteborg, la seconda città della Svezia, tra il 2015 e il 2017 si è tenuta una sperimentazione storica: le infermiere dell’ospedale per la cura degli anziani Svartedalens hanno lavorato per sei ore — anziché otto, proprio come in Italia — per lo stesso salario. L’esperimento ha dato risultati interessanti: da un lato le infermiere hanno dichiarato che la loro qualità della vita era drasticamente migliorata. Dall’altro, gli scettici accusavano il modello sei ore di non essere sostenibile sul piano economico, visto che l’assunzione di altre lavoratrici ha alzato i costi del servizio tra il 10 e il 20%.
I media hanno in larga misura bollato il progetto come poco più di una curiosità scandinava, e quando la sperimentazione è terminata, con le infermiere tornate a un più classico orario di otto ore la reazione media della stampa internazionale è stata più o meno “ve l’avevamo detto.”
Ci sono stati alcuni dati incontrovertibili: ad esempio, la richiesta di permessi per malattia è scesa del 10%; la salute percepita delle infermiere è migliorata considerevolmente, soprattutto di quelle in età materna; i residenti della casa di cura hanno sentito di ricevere un servizio nettamente migliore, descrivendo lo staff come più attento e felice, registrando anche una crescita nelle attività sociali e di gruppo.
Nonostante l’idea sia piuttosto semplice e tutti i lavoratori coinvolti se ne siano dimostrati soddisfatti, l’esperimento è rimasto, appunto, un esperimento.
In un momento di generale regressione della sinistra, la proposta di una riduzione ragionata dell’orario lavorativo sembra non trovare casa nei partiti e nei movimenti di tutto il mondo, nonostante sembri essere una buona proposta politica — qualsiasi partito già strutturato che ponesse come suo principale slogan e punto di programma “sei ore di lavoro per tutti” non passerebbe inosservato. Abbiamo parlato con Simone Fana, autore di Tempo Rubato, un saggio che affronta l’argomento “sulle tracce di una rivoluzione possibile tra vita, lavoro e società,” della riduzione dell’orario lavorativo. Perché si fa così fatica a mettere questa proposta all’ordine del giorno?
“Non è stato più un argomento perché sostanzialmente, per trent’anni, l’idea dominante è stata quella della produttività a tutti i costi,” ci spiega Fana.
“Bisognava lavorare di più per produrre di più, che ha ispirato tutte le politiche economiche del lavoro degli ultimi anni. La riduzione degli orari veniva vista come qualcosa che avrebbe ridotto la produttività e che avrebbe compromesso sostanzialmente la crescita. Non è stata considerata una politica efficace perché si è martellato costantemente sul fatto che lavorando di più il reddito da distribuire fosse più ampio, e fosse quindi più utile aumentare gli orari di lavoro piuttosto che ridurli.”
Non è sempre stato così: fino agli anni Settanta, i diritti dei lavoratori hanno visto una generale avanzata in tutto l’occidente, e anche in Italia, dove nel 1970 è stato approvato lo Statuto dei lavoratori — quello, tra le altre cose, in cui è incluso l’articolo 18 che è stato abolito dal governo Renzi con il Jobs Act nel 2015. “C’è stata una “controrivoluzione,” iniziata negli anni Ottanta dopo le conquiste degli anni Settanta, che ha legittimato sia teoricamente che praticamente questo tipo di impostazione,” secondo Fana.
“La riduzione avrebbe il beneficio di aumentare i livelli di occupazione e anche i salari orari.” Secondo Fana, la riduzione dell’orario di lavoro “imporrebbe alle imprese di aumentare la cosiddetta produttività con investimenti tecnologici: favorirebbe l’aumento degli investimenti in tecnologia e capitale fisso anziché la riduzione del costo del lavoro come principale strumento per aumentare il reddito prodotto.” Insomma, darebbe una mano all’innovazione.
Nell’ultimo decennio, in particolare negli ultimi cinque anni, se non si è parlato molto di riduzione degli orari di lavoro si è almeno cominciato a impostare un dibattito sul cosiddetto reddito universale di base, che ha assunto varie declinazioni e varie forme — tra cui quella nostrana, del cosiddetto “reddito di cittadinanza.”
La teoria che sta alla base di questo concetto, esposto bene in Inventare il futuro, pubblicato da Williams e Srnicek nel 2015, è piuttosto semplice: le macchine svolgeranno una quantità sempre maggiore di lavoro rispetto a noi, e dunque dobbiamo ridistribuire in modo omogeneo il reddito che producono — e che chi lavora non può produrre più.
Le proposte di una riduzione dell’orario di lavoro e quella di un reddito universale di base “possono stare insieme, ma questo richiede una riforma strutturale dei meccanismi di produzione” secondo Fana. “Se ammettiamo che l’innovazione tecnologica e i processi di automazione riducono la domanda di lavoro vivo, una parte della distribuzione del reddito prodotto dalle nuove tecnologie potrebbe essere redistribuito sotto forma di reddito di cittadinanza. È chiaro però che questo si può fare solo se si attacca il livello della produzione, e la riduzione dell’orario di lavoro ha proprio questo compito: portare le imprese ad aumentare la composizione organica del capitale. Se gli investimenti aumentano, una parte della distribuzione del reddito che non va più al lavoro vivo può essere trasferita attraverso il reddito di cittadinanza.”
Ci si può chiedere allora quale sia un obiettivo raggiungibile da porsi a breve termine, se si crede che la riduzione dell’orario lavorativo sia uno degli spunti giusti per cui lottare nei prossimi anni. Innanzitutto, secondo Simone, “La battaglia dev’essere per la riduzione dell’orario a parità di salario — anzi, per come la vedo io la questione della riduzione dell’orario andrebbe posta alzando i salari. Ci si può arrivare, ad esempio, con una legge per la riduzione dell’orario settimanale a 32 ore simile a quella che è stata discussa alle ultime elezioni in Francia, da Melenchon ma anche Hamon.”
32 ore di lavoro a settimana, spalmate su cinque giorni lavorativi, sono poco più di sei ore al giorno, e sono meno ancora delle 35 ore della battaglia di Rifondazione Comunista negli anni ’90 — l’ultima proposta concreta di riduzione dell’orario di lavoro in Italia.
“Questa riduzione deve essere accompagnata da un maggior potere da parte delle associazioni sindacali per l’organizzazione dei turni e del lavoro.”
Resta un dato di fatto: al momento in Italia non si vede nessuna forza politica degna di nota che potrebbe proporre un’idea simile. “Al momento non vedo una discussione, le forze che governano il paese non hanno alcuna intenzione di favorire un maggior potere ai lavoratori all’interno dello scenario politico, conclude Fana. “In Italia la sinistra vive una fase di marginalità storico-politica per cui non vedo grandi margini — chissà mai che nel prossimo congresso della CGIL cambi qualcosa.”
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