Ancora percorsa dalle cicatrici della guerra civile, Velika Kladuša cerca di fare i conti con la propria realtà di città di confine. Tra preoccupazioni e speranze, abbiamo raccolto le voci di alcuni suoi abitanti.
“Sono certo che il 90% delle persone della mia classe, quando frequentavo la scuola elementare qui a Velika Kladuša, sono andate via dalla città”
—Elvir conduttore radiofonico di Rvk
Velika Kladuša, vista oggi, è una piccola cittadina di frontiera popolata da circa 44.000 persone e si trova all’estremo nord ovest del Paese, all’interno dell’Una-Sana, uno dei dieci Cantoni che compongono la Federazione della Bosnia ed Erzegovina.
Velika Kladuša è situata a pochi chilometri dalla Croazia e queste due realtà confinanti hanno intrapreso relazioni commerciali per molti decenni. Erano gli anni ’70 e Fikret Abdić, un personaggio che scriverà un intero capitolo della storia della guerra nei Balcani, trasformò Agrokomerc, piccola azienda agricola di sua proprietà, in un colosso dell’industria agroalimentare dell’ex Jugoslavia. La sua attività fiorì in poco più di dieci anni. Se nel 1963 la cooperativa agricola contava 30 dipendenti, nel 1987 arriveranno ad essere oltre 13.000, e la presenza di Agrokomerc in questo territorio trasformò Velika Kladuša in una delle municipalità più ricche del Paese. Grazie all’azienda di “Babo”, papà — così fu soprannominato Fikret Abdić — la città divenne un centro di irradiazione di benessere economico.
Abdić, patron di un’impresa fiorente che immetteva molti prodotti sia sul mercato nazionale che su quello internazionale, fu il principale datore di lavoro della zona. Le sue abilità economiche e la sua crescente notorietà lo avvicinarono presto all’ambiente politico, da cui nascerà il culto della sua figura.
Nell’estate del 1987, però, fu dichiarato il crack di Agrokomerc che si sbriciolò dopo che venne scoperto che l’impero economico di Abdić poggiava su un terreno di cambiali senza copertura. Il fallimento sconvolse l’economia di Velika Kladuša, e migliaia di abitanti persero il posto di lavoro.
“Mio fratello apparteneva a un’armata diversa dalla mia e ci siamo combattuti”
Bairo, ufficiale di polizia, ci racconta che la città di Kladuša è stata teatro di un conflitto sui generis durante la guerra scoppiata in Bosnia nell’aprile del 1992. Abdić, incarcerato per speculazione, acquisì ancora maggior popolarità in quegli anni dichiarando di essere stato vittima di un complotto politico. Tornato a Velika Kladuša, divenne il leader indiscusso della città. Mentre la guerra infuriava, Abdić instaurò relazioni con i Serbi che si trovavano nella “Krajina” croata, rapporti utilitaristici dato che i prodotti della sua impresa, indebolita ma non completamente estinta, dovevano transitare attraverso zone occupate da combattenti Serbi per raggiungere la Croazia e l’Europa. Fu ad un passo dal diventare presidente della Bosnia, ricevendo duecentomila voti in più rispetto al rivale Alija Izetbegovic alle prime elezioni libere dopo la dichiarazione d’indipendenza del 5 aprile 1992, ma decise di rimanere vicino al suo territorio e ai suoi scambi commerciali cedendo, di fatto, la presidenza a Izetbegovic.
“Qui si è combattuta una guerra strana, si combatteva tra persone appartenenti alla stessa famiglia”
Emri, muratore locale, ci racconta che Abdić volle staccarsi dal governo centrale di Sarajevo. Il leader di Agrokomerc fu supportato dalla popolazione che si pronunciò a favore della costituzione della Provincia Autonoma della Bosnia Occidentale. Iniziò così la guerra tra bosgnacchi (bosniaci musulmani) appartenenti alla stessa fede religiosa ma divisi nella visione del futuro del Paese. Si spaccò non solo la Bosnia ma soprattutto la città di Velika Kladuša che sprofondò in una guerra “tra fratelli.”
“Siamo stati rifugiati e sappiamo cosa vuol dire,” chiosa Bairo, raccontandoci di come molte persone furono costrette a fuggire dalla città cercando rifugio in Italia, Germania, negli Stati Uniti e in Canada. La faida che divise molte famiglie terminò nel 1995, quando i soldati fedeli al governo di Sarajevo riuscirono ad occupare la fortezza dalla quale Abdić controllava la città. Molte persone lasciarono Velika Kladuša durante la guerra e i segni del conflitto sono ancora evidenti non solamente sulle facciate di alcune abitazioni del centro storico, ma soprattutto osservando l’alto numero di case lasciate vuote o messe in vendita.
Il conflitto in Bosnia costrinse due milioni di persone ad abbandonare la propria casa e molte di loro non hanno ancora fatto rientro nella propria città natale. Velika Kladuša è terra di migliaia di persone fuggite lontano ed è una città che ha vissuto, in soli 25 anni, paradiso e inferno, fertilità e aridità. In soli 25 anni è passata dall’essere la città del “miracolo economico,” grazie ad Agrokomerc che portò benessere nel Cantone, all’essere una città “fantasma” i cui abitanti sono partiti cercando fortuna altrove.
“I ragazzi si preparano a lasciare il Paese dopo la scuola superiore”
In questa città frontaliera, ci racconta Elvir, c’è chi rientra a casa nel fine settimana — il lavoro è in Croazia, Slovenia o in Austria perché il salario è più alto rispetto a quello che si percepirebbe rimanendo in Bosnia. Molte persone, invece, tornano a Velika Kladuša solamente per trascorrere le vacanze estive — la casa adottiva è in Germania, Italia o negli Stati Uniti.
Uomini e donne costretti a lasciare il proprio Paese perché la guerra era troppo pericolosa, uomini e donne costretti ad abbandonare la propria città per migliorare la propria condizione di vita. La strana giostra del destino ha fatto incontrare Velika Kladuša con coloro che oggi rappresentano i nuovi abitanti di questa città, persone in transito con addosso la stessa voglia di cambiare e lo stesso desiderio di trovare una sistemazione migliore per sé stessi e i propri cari.
La nuova rotta passa da Velika Kladuša
“Al loro arrivo molte persone si mobilitarono per trovar loro un piatto caldo, dei vestiti invernali e un letto.” Ripercorriamo insieme a Bairo i primi arrivi in città e le prime famiglie che si rivolsero a lui per trovare una sistemazione temporanea, nell’attesa di riprendere il viaggio. Molte famiglie si misero al lavoro, ci spiega Bairo, per accogliere al meglio queste persone ma poi, a fronte del crescente numero di arrivi, non riuscirono a proseguire l’autonoma opera d’accoglienza da loro avviata.
“Il governo locale deve fare qualcosa, deve trovare delle soluzioni,” continua Bairo, raccontandoci che ci sono gruppi di persone che stanno facendo pressione sulle istituzioni affinché si trovi una sistemazione adeguata per l’inverno, che quest’anno sembra aver anticipato il suo arrivo.
“Una delegazione dell’Unione Europea ha chiaramente detto che non si può pensare di costruire un campo così vicino al confine.” Bairo ci spiega che l’Unione Europea, il comune di Velika Kladuša e il Governo Centrale stanno facendo braccio di ferro per decidere dove collocare centinaia di persone attualmente sistemate in una tendopoli al di fuori della città. Sono passati ormai 9 mesi dai primi arrivi e la situazione non è ancora cambiata.
“Sono preoccupato perché con l’arrivo dell’inverno ci potrebbe essere un aumento delle irruzioni nelle molte case lasciate vuote. Si viveva più tranquilli prima del loro arrivo.” Emri è spaventato, teme l’occupazione di case ed è preoccupato per i legittimi proprietari delle abitazioni lasciate temporaneamente sgombre. Ci dice che si viveva meglio prima dell’arrivo dei migranti in città, non si sente al sicuro quando passeggia con la sua famiglia e paventa l’aumento di scontri interetnici e delle attività illecite in città.
“Devo andare a prendere mia moglie quando fa il turno di notte perché non si sente tranquilla ad attraversare la città da sola. Girano molte persone che non hanno rispetto e litigano ogni giorno,” prosegue, ricordandoci che in giugno c’è stato il primo grave episodio di violenza che ha portato alla morte di ragazzo un marocchino. “Penso quotidianamente a questa situazione e credo che ci sia un piano dietro a tutto questo, non so dirvi di che cosa si tratti ma penso che ci sia una strategia.”
Forse Emri fa riferimento al timore espresso dai nazionalisti serbo-bosniaci dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti capitanati da Milorad Dodik, secondo il quale sarebbe in atto un tentativo di ripopolamento musulmano attraverso i migranti che attraversano la Federazione Bosniaca.
Il collettivo Checkmate sarà in Bosnia fino al 7 novembre, per documentare il “gioco” crudele a cui sono costretti i migranti che vogliono oltrepassare il confine. Leggi le altre puntate del reportage.
“Nessuno si sta preoccupando di queste persone. Il Governo deve muoversi e fare qualcosa e non gli abitanti locali.” Emri ci spiega che pensa ogni giorno alla condizione disumana che vivono i migranti bloccati a Velika Kladuša ed è chiaramente arrabbiato per l’atteggiamento negligente dei politici.
La Commissione Europea ha adottato, quest’anno, misure speciali per tamponare la crisi migratoria nel Paese, con un finanziamento di 1.5 milioni in giugno e di 6 milioni di euro all’inizio di agosto. Questi soldi dovrebbero servire per fornire alloggi e servizi di base per i rifugiati, richiedenti asilo e migranti, e contribuire alla prevenzione e alla lotta contro il traffico di esseri umani. Questi ultimi interventi economici si sommano a quelli già impiegati dalla Commissione Europea che dal 2007 ha stanziato 24 milioni di euro per l’assistenza nell’area delle migrazioni e della gestione delle frontiere e 8 milioni nel 2016 dopo la sottoscrizione del programma regionale di “sostegno alla gestione della migrazione sensibile alla protezione.”
“Fa già troppo freddo la notte e non è pensabile dormire in tenda durante l’inverno. I bosniaci sono un popolo accogliente ma qui non c’è niente da fare, non ci sono prospettive lavorative o di vita migliore. Non esiste nemmeno un sistema d’accoglienza adeguato.” Ali, ex giornalista pachistano, è preoccupato e arrabbiato perché non riesce a dormire da molti giorni. Ha provato tante volte a superare la frontiera, ma non ci è ancora riuscito. Si chiede dove dormirà durante l’inverno ma nessuno, qui a Velika Kladuša, riesce a rispondere a questo interrogativo.
A poco meno di 10 chilometri dalla città, posizionate da un lato di fronte ad uno dei complessi Agrokomerc ormai ingrigito dal tempo e completamente abbandonato e, dall’altro, vicine ad una pista di go-kart in disuso, sono state disposte all’incirca 40 tende col marchio “National Disaster Manegement Authority,” l’autorità federale pachistana che si occupa di una vasta gamma di operazioni umanitarie.
Molti abitanti della città, con i quali ci siamo confrontati nelle ultime tre settimane, hanno creduto che questo potesse essere il posto scelto per l’accoglienza invernale. Difficilmente, però, le persone verranno trasferite in questo complesso, non tanto per l’evidente inadeguatezza, ma per la sua eccessiva vicinanza al confine croato. Elvira Abdić-Jelenovic, figlia di Friket e presidente del partito Laburista ha dichiarato, nel luglio di quest’anno, che i complessi Agrokomerc ormai non più in funzione non verranno messi a disposizione per l’accoglienza migranti.
“Non pensavo di finire in questa situazione. Se penso che potrei ritrovarmi a soffrire il freddo invernale in una tenda qui a Velika Kladuša, beh, allora considererò l’ipotesi di rientrare a casa mia. Preferisco morire nel mio Paese.” Mahid è in viaggio da molti mesi ed è stanco. Non sopporta l’idea di aver fatto un viaggio così lungo e faticoso ed essere intrappolato alla frontiera. Nei suoi occhi il timore di ripartire, per le botte che rischia di prendere, e la paura di restare, che potrebbe voler dire morire di freddo.
Riflettersi nell’Altro
Rileggendo la storia di Velika Kladuša, le somiglianze tra gli attuali abitanti di questa città risultano evidenti. La guerra, le discriminazioni, il desiderio di cambiare la propria vita sono alcuni dei tanti aspetti che li accomunano. Migliaia di persone fuggirono da Velika Kladuša durante il conflitto in Bosnia. Molte di loro vennero fermate alla frontiera, proprio qui dove siamo noi in questo momento, perché in Croazia non si poteva andare. Famiglie intere si dovettero rifugiare sotto la fragile stoffa di una tenda. Ci fu un enorme esodo di persone, in Bosnia era in atto una guerra feroce, una lotta contro una religione, capro espiatorio per convenienza politica.
Ripercorrendo la storia di Velika Kladuša e della Bosnia, ci rendiamo conto che le persone in transito da questa terra non sono così diverse da chi in questo Paese ci è nato e cresciuto.
“Ho 25 anni e vengo dal Marocco.”
“Ho 33 anni e vengo dall’Iran.”
“Ho 29 anni e vengo dalla Palestina.”
“Ho 19 anni e vengo dal Pakistan.”
“Ho 5 anni e vengo dall’Afghanistan.”
“Ho 46 anni e vengo dalla Tunisia.”
Ci fermiamo ogni giorno a parlare con ragazzi della nostra età, partiti molto giovani in cerca di una vita migliore. Padri e madri di famiglia, fermi alla frontiera con i loro figli, rifugiati sotto fragili strutture di legno, stretti nella morsa del freddo.
Ci guardiamo negli occhi ogni giorno, parliamo e ci rendiamo conto di quanto ci assomigliamo. L’unica differenza, forse, è che per il momento ci è andata meglio, siamo stati semplicemente favoriti dalla sorte. “Io sono te, temporaneamente seduto nel posto più comodo. Io sono te, temporaneamente più libero di muovermi.”
Levinas, filosofo francese, diceva che “l’uomo è un’esistenza che parla.” L’obiettivo del dialogo è la reciproca comprensione il cui scopo, a sua volta, è il reciproco avvicinamento, ma c’è una condizione preliminare per avviare questo processo: la volontà di conoscere, il rivolgersi all’altro, l’andargli incontro, l’attaccare discorso. Ci sono molti abitanti locali, qui a Velika Kladuša, che hanno paura che la città cambi, che i migranti possano portare a un deterioramento della tranquillità di questo posto. Emergono paure istintive.
“Mi sono accorta che quello che sapevo delle persone che da pochi mesi vivono in città era completamente sbagliato. Tutte le paure emergono quando non si sa niente dell’Altro. Solamente dandoti la possibilità di avvicinarti all’Altro permetti a te stesso di cambiare idea.” Ci sono persone, come Saida, proprietaria di un piccolo negozio di telefonia, che hanno deciso di non scendere a compromessi con la paura.
Il collettivo “Checkmate” è composto da due cineasti, Luca e Francesco e da Paolo, ex operatore d’accoglienza. Se hai voglia di sostenere il progetto, partecipa alla nostra raccolta fondi e seguici su Facebook.
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