La sentenza della Corte Costituzionale è l’ultima occasione del Movimento 5 Stelle per salvare la propria “dignità”

Oltre le parole il Movimento 5 Stelle si è mostrato finora il peggior nemico possibile dei lavoratori.

La sentenza della Corte Costituzionale è l’ultima occasione del Movimento 5 Stelle per salvare la propria “dignità”

Oltre le parole il Movimento 5 Stelle si è mostrato finora il peggior nemico possibile dei lavoratori.

Ieri pomeriggio, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’uso del principio di anzianità per il calcolo del rimborso dovuto dall’azienda al lavoratore licenziato ingiustamente. La sostituzione dell’obbligo di reintegro con la semplice compensazione economica era tra i capisaldi della riforma voluta da Renzi. Aveva comportato la cancellazione del famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, notevole impresa in cui due decenni di governi di centrodestra avevano sempre fallito.

Secondo la Corte «la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore» risulta «contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza, e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione». La sentenza completa in realtà deve ancora essere pubblicata, la Corte ha diffuso solo una breve nota.

È importante notare che la sentenza non è sul riformato articolo 18, la cui costituzionalità era stata confermata lo scorso aprile. La Consulta infatti ieri si è espressa esplicitamente nei confronti dell’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n.23/2015. In cosa si tradurrà la sentenza? In una maggiore discrezionalità da parte dei giudici per valutare l’entità del risarcimento, rendendo così molto più difficile per un’azienda proiettare il costo di un licenziamento.

La Corte però si è solo pronunciata sulla norma in sé: non ha detto come dovrà essere rivista e inserita nella legislazione corrente. Questo compito spetta a chi è al governo.

Conosciamo chi occupa oggi Palazzo Chigi, e le reazioni alla sentenza della Corte non si sono fatte attendere: soprattutto quella di Di Maio, che in quanto Ministro del lavoro e dello sviluppo economico è anche il membro dell’esecutivo più interessato da questo sviluppo. Durante il question time alla Camera, Di Maio ha dichiarato che “torneremo all’epoca pre Jobs act che ha tolto un sacco di diritti. Oggi, anche la Corte costituzionale ha iniziato a smontare il Jobs act“. E ha aggiunto: “bene aveva fatto il decreto ‘dignità’ ad andare nella direzione che oggi indica la Consulta, chi si ostina ad andare nell’altra direzione speriamo che si renda conto degli errori commessi”. Solo l’altro giorno Di Maio aveva anche rivendicato di aver messo in cantiere una manovra finanziaria che “aiuterà gli ultimi e farà la guerra ai potenti.” E l’altro ieri sera, a Porta a Porta, si era spinto a dire che “aboliremo la povertà” (sic).

Quale sarà ora la direzione in cui andrà il governo?

Nonostante le rivendicazioni di Di Maio, questo governo finora ha fatto molto poco per chi è in difficoltà: nel migliore dei casi è stato indifferente alle loro richieste, nel peggiore — che si può tradurre in: se si è stranieri — è stato apertamente ostile. Il decreto “dignità” in effetti è stata una delle poche misure in linea con quella che sui giornali spesso viene definita “l’anima movimentista” dei Cinque Stelle, perifrasi interessante per evitare di scrivere “l’ala sinistra.”

La presupposta sinistra del partito amministrato dalla Casaleggio associati in questi mesi è stata spesso messa in minoranza, risolvendosi ad accettare tutti i provvedimenti più reazionari imposti dal tandem Di Maio–Salvini. Il massimo che i vendicatori dignitari Di Battista e Fico sono stati capaci di dare in questi mesi sono state prese di distanze, leggere stoccate, magari una comparsata a una festa di Articolo 1 se non c’era altro da fare la sera.

È corretto sottolineare che la sentenza riveli non solo l’ennesima fallacia di una riforma del lavoro che si è rivelata inefficace a curare i meccanismi malsani del mercato del lavoro italiano — una riforma, questa sì a differenza di quella Fornero, che ha giustamente lasciato chilometri di terra bruciata politica attorno al Partito democratico.

Oltre le parole però, il Movimento 5 Stelle si è mostrato finora il peggior nemico possibile dei lavoratori.

Sì, il peggior nemico possibile, perché le misure repressive sul mercato del lavoro dei governi Monti, Letta, e Renzi arrivavano in un contesto ideologico neoliberista, e in situazioni più o meno emergenziali. Si è trattato di sacrifici immani, ma nell’ottica di chi li ha pretesi, i lavoratori dipendenti, gli statali e i precari erano proprio coloro che questo sacrificio avrebbero potuto accollarselo, infatti contrattualmente più deboli nei confronti dello stato.

La colpa di quei governi è stata di non aver svolto la loro funzione sociale nell’ecosistema politico: non hanno in nessun modo difeso i lavoratori e le fasce svantaggiate, preferendo raccontare loro che politiche favorevoli ai loro padroni li avrebbero aiutati a loro volta, forse per malafede o forse per effettiva adesione a un credo economico reazionario.

L’atteggiamento del Movimento 5 Stelle è molto più pernicioso. Il partito si presta molto volentieri a svolgere il gioco delle parti con la Lega, rispondendo alle necessità “sociali” del populismo italiano mentre Salvini si occupa di quelle securitarie. Ma dietro queste continue boutade, dalla “dignità” all’“abolizione della povertà,” si nasconde una perfetta continuità con i governi precedenti, e anzi, un notevole slittamento a destra, per accontentare l’alleato di governo. Nel merito dei rimborsi, il dl “dignità” impone sì nuovi paletti, ma esprime una tacita concordanza con la riforma renziana. Con l’introduzione dei rimborsi si era infatti ricontestualizzato il rapporto stesso tra lavoratore e datore di lavoro, assegnando un vero e proprio costo del lavoratore. Non erano più le ore di lavoro che venivano retribuite, in qualche modo — il dl “dignità,” esattamente come il Jobs act, conferma che un’azienda può sostanzialmente pagare per risolvere il problema di un licenziamento ingiusto.

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Di obbligo di reintegro non si parla nemmeno

Oggi il Movimento 5 Stelle si trova davanti a una scelta che potrebbe segnare il suo futuro e quello del paese da qui ai prossimi anni. Nei tempi e nei modi che la sentenza della Corte consentirà, si è aperto uno spiraglio per poter effettivamente tornare indietro sull’abolizione dell’articolo 18, uno dei provvedimenti più significativi dello slittamento a destra del paese negli ultimi anni. Ad agosto, il Movimento ha votato contro la sua reintroduzione, nel contesto del dl “dignità,” confermandosi poco amico dei lavoratori — e, soprattutto, molto disposto a scendere a patti con la Lega di Matteo Salvini. È stata proprio in quella sede che più che ogni altra volta si è visto il vero volto del partito: un provvedimento che si è tradotto in nient’altro che una revisione del Jobs Act, senza nessuna ambizione e senza nessun effetto positivo per i lavoratori dipendenti, che costituiscono più di tre quarti dei lavoratori italiani.

Perché il Movimento dovrebbe oggi ripensarci? Prima di tutto, per bieca convenienza: perché uno strappo verso sinistra sarebbe a livello strategico la miglior cosa che possa succedergli. Tutti i sondaggi danno la popolarità di Di Maio non in forma smagliante, e quella di Salvini in continua ascesa. Come abbiamo sottolineato più volte, qualsiasi forza politica italiana deve smettere di seguire la destra nei modi e nella sostanza, se vuole avere qualche speranza di sopravvivenza. Cosa succederebbe se Salvini decidesse di andare a votare a Marzo, facendo cadere il governo prima che il partito di Di Maio sia riuscito a portare a casa qualcuna delle promesse fatte in campagna elettorale — una su tutte, il reddito di cittadinanza?

Non sarà facile: il Movimento 5 Stelle ha dimostrato più volte di non essere in grado di prendere una posizione coerente come dovrebbe essere quella di chi si propone di difendere una categoria sociale ben definita. Oltre che per convenienza, però, gli converrebbe anche per sostanza. Per “abolire la povertà” non basta dire di volerlo fare, o proporre provvedimenti superficiali, per quanto potenzialmente lodevoli: bisogna anche riconoscere che una maggiore uguaglianza passa anche dall’imposizione di una politica redistributiva di ampio respiro — esattamente l’opposto della lista della spesa di Salvini, che ha in testa soprattutto la flat tax, o i già citati governi degli anni passati — e dal posizionamento di paletti chiari sui diritti, come potrebbe essere il ripristino dell’articolo 18. È così che si combattono i veri poteri forti: impedendo loro di licenziare i lavoratori a loro piacimento.


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