Perché escludere gli stranieri dal reddito di cittadinanza non ha senso
Di Maio ha relegato la proposta chiave del proprio partito al linguaggio della destra — proposta che partiva già da idee piuttosto confuse.
Di Maio ha relegato la proposta chiave del proprio partito al linguaggio della destra — proposta che partiva già da idee piuttosto confuse.
Nonostante Salvini stia spingendo per togliere tutte le promesse del Movimento 5 stelle dalla manovra finanziaria, Di Maio sembra aver deciso — invece di far valere i punti di programma portati dal proprio partito al governo di coalizione — di tranquillizzare l’alleato garantendo che anche la propria formazione è saldamente legata agli ideali di estrema destra di Salvini.
È l’unico modo con cui si può leggere la dichiarazione di Di Maio, preoccupato di garantire all’alleato che “è logico,” che il Reddito di cittadinanza sia riservato solo ai cittadini italiani, a causa dei “flussi immigratori (sic) irregolari.”
Il caso è scoppiato in seguito all’affermazione del ministro Tria che la proposta del Movimento 5 stelle prevedesse il sostegno anche per gli stranieri, “anche a residenti di paesi dell’Unione europea sul territorio nazionale e di paesi terzi purchè i rispettivi paesi di origine avessero sottoscritto intese bilaterali di sicurezza sociale con l’Italia.”
Più di una volta abbiamo fatto notare come chi è straniero in Italia sia di fatto discriminato a livello istituzionale, e abbia meno diritti rispetto ai cittadini italiani: ad esempio manca del diritto di voto, una prerogativa essenziale per poter affermare le proprie esigenze — e che qualsiasi stato di diritto dovrebbe impegnarsi per garantire, se non ai propri cittadini, almeno ai propri contribuenti.
Qualsiasi movimento verso un’espansione dei diritti degli stranieri in Italia si è di fatto fermato lo scorso luglio 2017 con la rinuncia del governo Gentiloni di affrontare la proposta di legge sullo Ius soli “prima dell’estate,” che avrebbe dovuto garantire la cittadinanza a chiunque fosse nato su suolo italiano. Nonostante al governo ci fosse ancora il “centrosinistra,” la pressione che anni di propaganda di destra avevano creato intorno alla materia sono riusciti a sabotare la proposta, che sarebbe stata non solo umanitariamente legittima, ma addirittura logica.
Ma una proposta come quella di Di Maio, senza l’inclusione degli stranieri, ha senso?
Per capirlo, bisogna inquadrarne l’origine. Al Movimento 5 stelle, ancora oggi, piace ammantarsi di un’aura di futuribilità, di essere il partito nato tramite la rete — quello della democrazia diretta, pronto a superare anche il Parlamento — di essere il partito italiano più affacciato verso la modernità. In effetti, è stato il primo soggetto politico italiano a proporre all’ordine del giorno un reddito minimo garantito a una larga fascia della popolazione, che probabilmente è uno tra i temi che verranno più discussi dalla politica dei paesi occidentali in un futuro prossimo.
Non che sia una novità: la redistribuzione da parte dello stato sotto forma di un qualche reddito per tutti i propri cittadini o sudditi è antichissima, addirittura premoderna. Le voci più autorevoli che l’hanno proposta negli ultimi anni, però, e che hanno contribuito a togliere l’argomento dalla fantapolitica sono quelle del movimento accelerazionista, ben sintetizzato nel Manifesto per una politica accelerazionista di Alex Williams e Nick Srnicek del 2013.
Per gli accelerazionisti, un ruolo chiave nella costruzione di una società sempre più dipendente — e soffocata — dalla tecnologia è giocato da un reddito di base universale, che spetterebbe a chiunque in quanto forma di redistribuzione del benessere generato dalla tecnologia. Qualcosa di simile a quello che propone Di Maio, ma anche di radicalmente diverso: in questa visione non c’è spazio per nazionalismi o strizzatine d’occhio a movimenti di destra. Si può essere d’accordo o meno con l’accelerazionismo, o trovarlo una fonte di spunti più o meno interessante, ma in ogni caso la direzione del progresso è chiara: un reddito di base per avere senso deve essere universale, altrimenti è una forma di discriminazione — aggiungiamo: tra le peggiori, in quanto istituzionale.
Se accettiamo che il Reddito di cittadinanza non sia per tutti, le critiche centriste che si tratti di una misura estensiva del REI, il reddito di inclusione già in vigore dal 1° gennaio di quest’anno, si fanno fortemente più salde. Soprattutto, se inquadriamo in questo modo il Reddito di cittadinanza, è difficile contestare che non sia parte di misure proprie di uno stato assistenziale. In Italia, un paese che resta per fortuna ancora descrivibile come socialdemocratico, i diritti civili e politici sono riconosciuti attraverso la cittadinanza, non dalla professione o dall’etnia: per questo il concetto di cittadinanza è così importante e rimarcato. Il reddito di cittadinanza prospettato da Di Maio suona più come un Reddito etnico.
Se qualsiasi cosa che dice Di Maio fosse da prendere sul serio, sarebbe interessante chiedergli cosa intende per “gli italiani.” Un uomo di origini egiziane spostato con una donna italiana e che lavora nel paese da quindici anni è “un italiano,” secondo il ministro del Lavoro? Come si fa a tracciare la linea che garantisca l’“accesso al diritto” del Reddito di cittadinanza? Per ius sanguinis? Non ci è dato saperlo. È quello che sottolinea anche Tiziano Treu, presidente del Cnel ed ex ministro del Lavoro, che definisce la posizione di Di Maio “non accettabile.”
Questa misura proposta dal Movimento 5 stelle, in definitiva, già partiva zoppa: ed è stata addirittura snaturata dall’alleanza ostinata con la Lega.
Il Movimento 5 stelle, proprio nella costruzione della sua proposta più rappresentativa, si è confermato essere un’entità politica a cui importa poco dell’effettiva uguaglianza dei cittadini, un partito attento a mettere in cima alla lista della spesa la misura più facilmente spendibile sul piano mediatico: ma, in profondità, un partito che non ha alcuna seria intenzione di cambiare in modo profondo lo status quo della società, affrontando le sfide più importanti di questa fase storica.
Inoltre, a livello di calcolo politico, è più che discutibile che l’appiattimento di Di Maio e del suo partito su tutte le posizioni più nazionaliste e di destra della Lega salviniana possa essere conveniente per il Movimento. Tutti i sondaggi danno la Lega in sorpasso rispetto agli alleati di governo, che pure alle elezioni del 4 marzo avevano preso quasi il doppio dei voti. Come se non bastasse, l’incontro di ieri di Salvini con Berlusconi per ribadire l’unità del centrodestra alle prossime elezioni regionali dovrebbe dare un’idea chiara su dove preferisca tenere il proprio piede il segretario leghista.
Se si imita la destra sulle sue politiche, il pubblico è spinto solo ad andare ancora più a destra: cosa che Salvini ha capito benissimo, mentre si appresta a mangiarsi anche i propri “alleati” di governo.
È così che il Movimento sembra ormai saldamento fissato su binari che conducono a una galleria solo dipinta, non abbastanza a destra per competere con la futura alleanza di ultradestra che certamente Salvini avrà pronta per il prossimo appuntamento elettorale, troppo a destra per sperare di recepire i voti dell’elettorato di centro e centrosinistra, abbandonato da qualsiasi formazione.
Una facciata a cui il Movimento chiaramente conta di sopravvivere lasciando bruciare Di Maio, per sostituirlo con un candidato “che guardi a sinistra,” che magari non si sia nemmeno candidato alle scorse elezioni, ma che ricorda per ambizione e stupidità le scommesse, sempre perse, del vecchio nemico Renzi.
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