Questo libro prova a fornire una risposta, e ci va molto vicino.
È impossibile sperare di avere una visione panoramica completa di quanto succede dentro la Casa bianca. Questo anno e mezzo di amministrazione Trump è stato a dir poco burrascoso: ogni giorno si intrecciano diversi filoni di scandali, legati all’inadeguatezza professionale e emotiva del presidente, alle sue politiche retrograde, ai suoi presupposti legami con la Russia.
Per capire quanto sia folle la situazione, però, basta provare a riassumere cosa sia successo nelle ultime 36 ore a Washington:
- Il presidente è tornato a minacciare violentemente il dipartimento di giustizia;
- All’audizione farsa del candidato alla Corte suprema Kavanaugh sono stati arrestati 70 contestatori;
- La stampa internazionale ha pubblicato recensioni e commenti dell’ultimo libro di Bob Woodward, che descrive una Casa bianca “costantemente sull’orlo di una crisi di nervi;”
- Un membro dello staff di Trump ha annunciato che esiste un asse ombra all’interno della Casa bianca che sta cercando di limitare i danni fatti da Trump.
Whew. E siamo fortunati che nessuna altra attrice di film per adulti abbia annunciato di essere stata pagata per non raccontare il proprio incontro con il presidente, che nessun blog sia uscito con illazioni su una ipotetica registrazione di piogge d’oro che avrebbero coinvolto Trump a Mosca, che il presidente non abbia minacciato nessun altro paese di guerra nucleare.
“Casa di Trump, Casa di Putin,” del giornalista Craig Unger (La nave di Teseo, 384 pagine, 23 euro), segue la vita del bancarottiere di New York da molto prima che ambisse essere presidente degli Stati Uniti e cerca di portare alla luce i suoi legami con la criminalità russa.
(Nota: questa recensione è stesa leggendo l’edizione originale dell’inchiesta, edita negli Stati Uniti da Dutton.)
È un intreccio assurdamente complesso, in cui in molti punti, per stessa ammissione dell’autore, mancano legami diretti tra quello che oggi è il presidente degli Stati Uniti e la mafia russa. Ma la quantità di documenti e prove raccolti da Unger è tale da arrivare alla fine del libro senza dubbi riguardo la compromissione del presidente degli Stati Uniti.
E se Trump fosse una spia di Putin?
È una domanda troppo affascinante per non perdercisi dentro, quasi troppo romanzesca per sembrare vera, e che inevitabilmente finisce per essere canzonata. “Ha stato Putin,” è facile sentir ridere qualche detrattore del lavoro investigativo di Unger.
Ma anche se il libro conclude il proprio ricchissimo mosaico di corruzione senza scoprire una pistola fumante, l’indagine di Unger è importantissima per un’altra ragione: è il primo tentativo, riuscito, di organizzare il flusso costante di notizie apparentemente impossibili che sembrano legare Trump e Putin.
E non è necessariamente il limite del lavoro, perché potrebbe assolutamente trattarsi del limite romanzesco del reale: potrebbe non esistere un singolo evento, o un singolo video che costringa Trump nella mano di Putin — anche se l’indagine sembra dare nuova sostanza alla teoria della sex tape presentata dal dossier Steele. Non c’è motivo per cui la compromissione sia figlia al contrario di una lunga collaborazione remota.
La teoria di Unger
Secondo il giornalista, nodo nevralgico dello scambio di intelligence sarebbero gli uffici del Bayrock Group, un’azienda di sviluppo edilizio che lavorava da Trump Tower, in collaborazione con la Trump Organization.
Attraverso Bayrock, spiega Unger, Trump potrebbe aver fornito a Putin informazioni chiave per monitorare gli investimenti degli oligarchi russi che hanno “ereditato” le industrie russe dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Secondo il giornalista, l’accordo era semplice: l’organizzazione di Trump offriva informazioni a Putin, che non si opponeva agli investimenti degli oligarchi all’estero, se si trattava di proprietà dell’imprenditore newyorkese. Si creava un circolo perfetto, in cui Trump era pagato dagli oligarchi per spostare di fatto la loro ricchezza all’estero, e questi spostamenti erano tacitamente consentiti da Putin proprio perché gli avrebbero permesso di tenerli comunque sotto controllo.
Unger sospetta che le proprietà di Trump siano state usate dagli oligarchi per riciclare denaro, e che la Russia abbia prove che inchiodano l’ora presidente degli Stati Uniti alle frodi della mafia.
Attorno a questa tesi Unger elenca tutte le “prove” dei rapporti russi di Trump, un mare tempestoso dove prima d’ora era quasi impossibile orientarsi — dalla prima visita di Trump a Mosca, alle visite dell’ambasciatore Kislyak, fino alla recente inchiesta tra i rapporti tra comitato elettorale di Trump e operativi russi.
Il limite più grosso dell’inchiesta di Unger è chiaro: nessun singolo giornalista potrà mai scoperchiare questo caso. E anche se il libro forse è un po’ vanaglorioso, Unger non lascia mai sfuggire il bandolo della matassa, e non si abbandona mai in teorie del complotto. Si tratta di un lavoro, seppur parzialmente compilativo, fondamentale: è un nuovo punto di riferimento per provare che il sospetto di un kompromat ai danni di Donald Trump è tutto tranne che infondato. Che qualcosa tra Trump e gli oligarchi russi c’è — che Trump sia loro “complice” o meno non è ancora possibile provarlo, ma Casa di Trump, Casa di Putin pone di fronte a una domanda retorica la cui risposta è più evidente pagina dopo pagina: come potrebbe Trump non essere a conoscenza di tutto quello che succede nelle sue aziende?
Casa di Trump, Casa di Putin non è una lettura pienamente soddisfacente, perché è scritto in maniera così chiara e concisa da leggersi quasi come un testo true crime — per questo quando la narrativa criminale e l’intrigo politico arrivano sostanzialmente alla nostra contemporaneità senza indicare un colpevole, senza indicare una prova schiacciante, è difficile non sentirsi traditi dal testo. Ma è comunque una lettura che non può mancare per qualsiasi news junkie appassionato di politica statunitense, perché per la prima volta permette una visione complessiva dell’impero di Donald Trump.
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