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Leggerezza non significa prendere alla leggera le cose, significa alleggerirle dei pesi inutili. Secondo noi è importante ridere, alleggerire e pensare che le cose possano andare meglio.

Dopo Sanremo hanno pubblicato la loro prima raccolta di brani, Primati, che contiene anche “Una vita in vacanza,” il singolo che negli ultimi mesi ha contribuito a trasformarli in una band nazionàl-popolare.

Abbiamo incontrato Lo Stato Sociale al Filagosto Festival dove, tra il soundcheck e una partita a calcio improvvisata nel campo dietro al palco, ci hanno raccontato che di vacanze ne vedranno ben poche e che questa storia dell’indie, insomma, ha rotto un po’ le palle.

A proposito di “Una vita in vacanza,” ho visto che almeno fino a settembre sarete ancora impegnati con i concerti. Quest’estate in vacanza ci andrete?

Vacanza nel senso di prendere le ferie e partire probabilmente no, neanche nel 2019. Tuttavia il fatto di fare un tour bello come questo è esattamente il senso di quel brano. È il riuscire a vivere di quello che ti piace fare e con le persone con cui ti piace fare quella cosa. È questo il senso di “Una vita in vacanza.” Se crollassero tutti i dogmi del lavoro, inteso come obbligo e non come un qualcosa che ti completa e ti rende anche una persona migliore, sarebbe appunto una vita in vacanza per tutti, ovviamente utopistica, ma noi tendiamo a fare quello che cantiamo.

E se poteste andare in vacanza dove andreste?

Io (Francesco Draicchio ndr) mi accontento del classico mare e della classica montagna. Alberto, invece, a ottobre andrà negli Stati Uniti. Però mi piacerebbe fare un po’ di giri. Ad esempio non sono ancora mai uscito dall’Europa, pensa te, non ho il passaporto, non perché non me lo rilasciano ma perché non ho ancora avuto occasione. Quindi mi piacerebbe andare verso Oriente, o in Oceania.

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L’ultima data confermata di questo tour è all’Home Festival a Treviso. Dopo cosa succederà, inizierete a pensare al nuovo disco?

Assolutamente sì. Noi siamo in costante scrittura, sempre. In realtà è una cosa nuova perché prima quando andavamo in tour non trovavamo il tempo di scrivere e comporre. Invece, dal 2016, ci siamo imposti di scrivere in maniera continuativa anche nei momenti in furgone, o in treno quando ad esempio non sappiamo cosa fare. Ci siamo impigriti di meno in questi anni, nel post tour ci sarà una sessione di studio e poi si penserà all’anno nuovo.

A inizio giugno sono venuto a sentirvi al Carroponte. Mi ha colpito il ricordo di Aldrovandi, l’ho collegato al fatto che ormai si dice sempre più spesso che la musica non parla più di politica. Nel vostro caso invece le canzoni cercano anche di trasmettere qualcosa che vada oltre la leggerezza. Perché ritenete sia importante veicolare anche un messaggio?

Mandare un messaggio politico all’interno dei brani non è obbligatorio. Non è che te lo dice il medico e non è che sei più bravo o meno bravo se lo fai. È una questione intrinseca alla nostra amicizia. Per qualche motivo ci siamo conosciuti su tre banchi di scuola, ma soprattutto all’interno di manifestazioni e gruppi studenteschi, quindi la politica è sempre stata un discorso centrale. Perciò, dal momento che abbiamo anche il privilegio di farci ascoltare da un po’ di persone, riteniamo in qualche modo un obbligo morale parlarne. Che poi, in realtà, non è un obbligo ma un piacere, abbiamo voglia di farlo. E lo facciamo in questo modo, alleggerendo anche i messaggi con dei brani pop, anche divertenti, che è la cosa che si deve fare. È il modo migliore di veicolare questo tipo di messaggi, per non essere eccessivamente pesanti.

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Secondo voi c’è un trucco per coniugare leggerezza e impegno sociale?

Leggerezza non significa prendere alla leggera le cose. Significa alleggerirle di pesi inutili che possono essere, a livello scenico, l’aria contrita che esprimi nel fare un certo tipo di comunicazione. Non è sempre necessario. Secondo noi è importante ridere, alleggerire e pensare che le cose possano andare meglio.

“Noi siamo da sempre un gruppo antirazzista, antifascista, antisessista e diciamo, da sempre, che la Lega ci fa schifo.”

Ho visto che avete aderito alla campagna di Rolling Stone contro Salvini.

Noi siamo da sempre un gruppo antirazzista, antifascista, antisessista e diciamo, da sempre, che la Lega ci fa schifo. L’abbiamo sempre detta questa cosa. E quindi per noi è stato naturale. Non mi ricordo neanche se ce l’hanno chiesto, io mi ricordo che qualcuno ha preso la cosa e l’ha messa su.


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Parlando di “Una vita in vacanza,” tempo fa dicevate che avreste voluto diventasse un “tormentone moderato”, ci siete riusciti?

Sì, sicuramente. È un brano trasversale che cantano sia i bimbi che le nonne. Diciamo, missione pop riuscita. Però, onestamente, ogni tanto quando la sentiamo in un negozio per l’ennesima volta pensiamo socc’mel che due maroni rega.

Forse è andata un po’ oltre il moderato.

Ha fatto un saltino in più, ma non ha ancora rotto troppo, diciamo. (ridono)

Com’è cambiato in questi mesi il pubblico ai vostri concerti?

In numeri non è cambiato drasticamente. Uno pensa che il passaggio automatico tra l’esposizione tv e mediatica sia in qualche modo raffrontabile poi a un pubblico che paga ai concerti. In realtà però lo scarto non è uno a uno ma molto meno. Sì, abbiamo avuto un salto di pubblico a livello numerico ma non così incredibile. Però la forbice delle classi umane coinvolte in un concerto come il nostro è aumentata molto. Ci sono un sacco di bambini, un sacco di genitori, un sacco di ragazzi. Se nel 2015 l’età media oscillava tra i 18 e i 25, per qualche strana ragione oggi è aumentata leggermente. Questo non sappiamo perché ma è successo. Abbiamo avuto una traslazione in più di cinque anni, almeno.

Quanto vi rompe i coglioni il fatto che ogni volta vi chiedano dell’indie?

Ci ha sempre rotto le balle sta roba. E noi rispondiamo sempre allo stesso modo. Ci hanno messo, ovviamente per natura e costituzione di questa band, sotto questa etichetta “indie”. Ma che cos’è questa etichetta? È puro marketing, è una playlist di Spotify. Era una roba che aveva senso negli anni ‘90 quando a comandare c’erano solo le major, soprattutto in America. In Italia non si può parlare di indie, si può parlare di mercato che è cambiato. Però è sempre la stessa cosa, le piccole etichette ragionano esattamente con la stessa logica di mercato delle grandi etichette. 

Noi in realtà poi siamo editi con una major. Abbiamo la discografica con Universal, però questo non implica nessun tipo di vincolo. Siamo completamente liberi su quel fronte, è solo uno strumento per arrivare meglio nei negozi o essere in qualche modo meglio distribuiti sul territorio.

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Tutte le foto di Francesco Bassanelli

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