Possiamo smetterla di chiamarli barconi? Grazie
Con il ritorno della “rotta di Lampedusa” ritorna anche uno dei termini preferiti del giornalismo italiano, sottilmente denigratorio.
Con il ritorno della “rotta di Lampedusa” ritorna anche uno dei termini preferiti del giornalismo italiano, sottilmente denigratorio.
Il forzato allontanamento delle navi umanitarie dal mediterraneo centrale nelle ultime settimane ha avuto due conseguenze piuttosto prevedibili: la prima è l’aumento dei naufragi — Medici Senza Frontiere stima più di 600 tra morti e dispersi solo nell’ultimo mese — e dei rientri forzati in Libia, quando la guardia costiera libica riesce a intercettare le imbarcazioni (circa 10 mila dall’inizio dell’anno).
La seconda è l’adattamento strategico dei trafficanti, che stanno tornando a utilizzare sempre più spesso imbarcazioni più grandi e resistenti, in grado di trasportare un gran numero di persone direttamente nelle acque territoriali italiane, senza attendere i soccorsi, al posto dei gommoni di fabbricazione cinese utilizzati negli ultimi due anni. È quello che è successo con l’ultima imbarcazione su cui si è giocato il solito rimpallo di responsabilità tra Italia e Malta, un peschereccio partito dalla Libia con 450 persone a bordo e diretto verso Lampedusa.
Questa mattina i migranti che erano a bordo del peschereccio sono stati trasferiti su navi della Guardia costiera, della Guardia di finanza e dell’agenzia Frontex, mentre otto fra donne e bambini che necessitavano urgentemente di assistenza medica sono stati portati a Lampedusa. Le navi al momento sono in attesa di sapere verso quale porto dirigersi — Salvini insiste che vadano “a Malta o in Libia,” ma si trovano già in acque italiani e su mezzi italiani (con l’eccezione del pattugliatore di Frontex), per cui è difficile immaginare come questa richiesta possa avere seguito legalmente.
È il caso più rumoroso, ma non l’unico. “È già un po’ di tempo che qui ha ripreso ad arrivare gente, mica da ieri,” riferisce il medico di Lampedusa Pietro Bartolo ad Alessandra Ziniti sulla Repubblica di oggi. Un copione già visto, che fornisce la migliore risposta a chi pensava che con l’allontanamento delle Ong sarebbero diminuite le partenze. L’accusa alle navi umanitarie di fare da pull factor, fattore di incoraggiamento all’emigrazione dall’Africa, semplicemente non tiene: l’unico pull factor è l’Europa, e finché esisterà una domanda di migrazione, in assenza di vie legali per soddisfarla, questa prenderà tutte le vie illegali disponibili.
Sembra di essere tornati indietro di cinque anni, prima dell’istituzione del dispositivo di salvataggio dell’Operazione Mare nostrum, dopo il drammatico naufragio al largo di Lampedusa che, a causa di un rimpallo di responsabilità tra Italia e Malta molto simile a quello di ieri, costò la vita a 268 profughi siriani.
E con il ritorno della “rotta di Lampedusa” torna anche un termine odioso del vocabolario giornalistico: “barcone.”
“Barcone” è una peculiarità tutta italiana, tipica di un giornalismo tradizionalmente affezionato alle coloriture lessicali. Sulla stampa anglofona si trovano ship, boat, vessel, su quella francofona bateau, navire, embarcation, termini che possono essere utilizzati per indicare navi e imbarcazioni anche in altre “funzioni” che non siano quelle di trasportare migranti. In italiano, invece, il termine barcone si è completamente ri-funzionalizzato a indicare una sola cosa (dato che le altre occasioni per utilizzarlo sono piuttosto rare.)
L’accrescitivo si porta dietro un’accezione inevitabilmente negativa, che nell’immaginario comune rimanda a enormi imbarcazioni fatiscenti, spettralmente alla deriva, cariche di uomini pronti a riversarsi sulle nostre coste. Un immaginario che si è formato a partire dall’emergenza migratoria dall’Albania negli anni Novanta — oggi quasi dimenticata, ma all’epoca accompagnata da un linguaggio, tanto nella stampa quanto nella politica, molto simile a quello che vediamo oggi.
Pretendere che si adotti un linguaggio diverso non è una battaglia sterile per questioni nominali, sintomo di un’ossessione per il “politicamente corretto” o volontà di non chiamare le cose con il proprio nome: al contrario, vuol dire impegnarsi a ridare dignità alle persone che maggiormente rischiano di vedersela togliere, e non hanno la possibilità di far valere in prima persona la propria voce. E non si può riconoscere la dignità di qualcuno se si utilizza un linguaggio denigratorio, anche implicitamente o in buona fede.
È una presa di responsabilità importante da parte degli operatori dell’informazione, nel momento in cui il linguaggio d’odio contro gli stranieri risulta in crescita e sempre piú spesso passa dalle parole ai fatti.
Nel modo in cui si parla di migrazioni sono già stati fatti numerosi passi avanti: è sparito dal linguaggio considerato accettabile un termine dispregiativo e razzista come “vu’ cumprà,” che un tempo campeggiava senza scandalo anche nei titoli di giornale; sta lentamente scomparendo anche “clandestino,” nonostante qualcuno si ostini a utilizzarlo impropriamente.
Per contrastare il linguaggio d’odio, dal 2011 l’Associazione Carta di Roma cura l’attuazione di un “protocollo deontologico per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione,” che invita, tra le altre cose, ad “adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore e all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri.” La stessa associazione pubblica ogni anno un rapporto, intitolato significativamente Notizie da paura, che analizza la copertura mediatica di stampa e televisioni del fenomeno migratorio.
“Barcone” non rientra, ovviamente, tra i termini giuridicamente inesatti (come “clandestino”), ma proprio per questo è più insidioso: rientra in una classe terminologica allusiva, che tradisce uno stigma interiorizzato e spesso inconsapevole. Per questo è importante iniziare a farci caso.
in copertina, la nave irlandese LÉ Eithne soccorre un’imbarcazione di migranti, 15 giugno 2015. Foto cc Irish Defence Forces.
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