Come si risolvono i problemi concreti di un campo profughi: la storia di Syrian Eyes
Dalla conservazione del cibo all’assistenza psicologica, i volontari di Syrian Eyes aiutano le famiglie che vivono nel campo libanese di Al Fares ad affrontare i problemi della vita quotidiana.
Dalla conservazione del cibo all’assistenza psicologica, i volontari di Syrian Eyes aiutano le famiglie che vivono nel campo libanese di Al Fares ad affrontare i problemi della vita quotidiana.
*Questo articolo fa parte di Malja’a Lebanon, un reportage in quattro puntate su alcune esperienze di auto-organizzazione e attivismo tra i rifugiati in Libano. Puoi leggere le altre puntate della serie qui.
Un’esperienza per certi versi radicalmente diversa ci sembra quella dei ragazzi di Syrian Eyes, un’associazione nata nel 2013 su iniziativa di un gruppo di amici siriani, libanesi e palestinesi installati a Beirut. Incontriamo tre di loro, Tareq, Ali e Beski, in un bar della città. Tareq e Ali sono entrambi di Hama. Il primo lavora come archeologo, il secondo come fotografo e giornalista. Beski, di Aleppo, lavora nelle Ong come trainer.
“Siamo partiti come un gruppo di amici,” ci raccontano. “Volevamo organizzare una raccolta di vestiti usati qui a Beirut per portarli e distribuirli nei campi di rifugiati che si erano formati nella valle della Bekaa, lungo i confini con la Siria. Abbiamo creato un evento su Facebook, poi un altro e un altro ancora. Poi abbiamo cominciato a lavorare in partenariato con altre organizzazioni, Ong locali e internazionali, per realizzare altri progetti. Si è trattato per esempio di rifornire i campi di un sistema di isolamento per l’inverno, la costruzione e riparazione di tende, la riabilitazione di strade, e tante altre attività.”
Una particolarità di quest’associazione, e in questo si avvicina all’approccio scelto da Operazione Colomba, è il fatto che opera essenzialmente in un solo campo, Al Fares, nella Beqa’ centrale. “Avevamo visitato varie zone del Libano dove la maggior parte della popolazione era costituita da migranti siriani,” ci spiega Tareq. “Volevamo vedere chi stava già lavorando nei vari campi, chi stava fornendo già dei servizi. La zona del villaggio di Al Rawda, dove si trova il campo Al Fares, non rientrava nel circuito delle organizzazioni internazionali.”
“Nel campo vivono 12 famiglie,” continua Tareq, “ma ci sono diversi piccoli raggruppamenti nella zona. Si arriva a circa 180 rifugiati, che abitano nelle tende ma anche in case normali. La popolazione locale ha relativamente accettato la loro presenza. Alcuni di loro si conoscevano anche prima del conflitto. È una zona di confine.” “Soprattutto dopo il 2015, quando hanno cambiato la legge,” aggiunge Beski, “la situazione è diventata più complicata. La maggior parte di loro non aveva più le carte in regola.” E per molti di loro, come abbiamo visto succedere anche nell’Akkar, è diventato difficile spostarsi per andare a cercare lavoro, a causa dei posti di blocco dell’esercito. “Perciò abbiamo cominciato a visitare regolarmente questo campo, per poi proporre alcuni progetti.” Fra questi c’è il Community Center, “un vecchio magazzino che abbiamo trasformato in uno spazio comunitario.” Viene utilizzato per ospitare riunioni, eventi, workshop artistici e proiezioni di film per bambini e adulti. “In questo momento stiamo lavorando su un progetto per la produzione di cibi in conserva, da vendere poi qui a Beirut o in altre zone.”
Vengono sostenuti e incoraggiati anche progetti proposti dagli stessi abitanti. Per esempio, quello per la costruzione di una panetteria, che ha permesso la creazione di piccoli circuiti economici autonomi all’interno del campo, oltre che costituire una fonte di sostentamento. Un altro esempio è il progetto realizzato nel settore agricolo. Le famiglie del campo avevano espresso il bisogno di trovare un’alternativa al cibo fornito dall’assistenza umanitaria, non sufficiente e non abbastanza diversificato, coltivando loro stessi una parte del terreno del campo. La terra tuttavia non era nelle condizioni ottimali per la coltura, perciò Syrian Eyes ha contattato alcuni attivisti esperti nel settore tra il Libano e l’Europa che sono venuti nel campo per insegnare le tecniche di “agricoltura urbana” e permacultura più adatte per il contesto, mettendo a disposizione i loro semi. “Hanno creato una banca di semi organici molto resistenti,” spiega Ali, “ottenuti dopo un lungo processo di pulizia dai vari agenti chimici che nel corso degli anni li avevano indeboliti.” Anche se si tratta ancora di un progetto pilota ha contribuito a creare una certa indipendenza per le famiglie del campo.
Con Beski invece parliamo di un altro progetto, Me, We, Syria, di cui è stato il coordinatore e trainer. Il suo obiettivo è creare uno spazio di dialogo dove gli abitanti del campo, gli adolescenti e i genitori, possano esprimere i loro problemi, per discuterne poi collettivamente e cercarne le soluzioni. Il formato era già stato proposto in alcuni campi in Giordania e in Turchia. “In Libano siamo stati una quindicina di persone a ricevere la formazione. Io ho coordinato il progetto nel campo Al Fares, lavorando con i ragazzi tra i 15 e i 18 anni, e anche con gli adulti, per un periodo di 3 mesi.”
“Le difficoltà non sono state poche,” racconta Beski. I ragazzi non erano abituati a questo genere di attività, incontri regolari di 3 o 4 ore, dove si parla e si discute a lungo. Liberare la parola è un processo molto complicato. “Molti di loro sono arrivati in Libano da piccoli e sono cresciuti in un contesto di emarginazione, a scuola per esempio, dove non trovano spazi per l’ascolto. Ma anche nel contesto familiare. Tutti all’interno delle famiglie hanno problemi, perciò nessuno osa parlare dei propri.”
L’obiettivo di questi incontri era offrire uno spazio di ascolto, che facilitasse la creazione di legami di fiducia tra le persone. “Per esempio, uno dei partecipanti agli incontri a un certo punto ha deciso di parlare e ha detto che non si sentiva importante nella società. ‘Non faccio nulla nella vita. Mi alzo, vado a lavorare, torno a casa, dormo. E così via. Rispetto a voi, non faccio nulla’. Allora gli altri hanno cominciato a porgli delle domande, ‘ma perchè lavori?’ E lui ha risposto: ‘Mia madre è malata, e devo provvedere anche alle mie sorelle’. ‘Vedi che sei importante’ gli hanno detto allora, ‘Aiuti la tua famiglia, tua madre, le tue sorelle, e sei ancora così giovane. Noi non saremmo capaci di farlo da soli’. Era molto contento. Nell’incontro successivo, ha ripreso la parola per dire che ora si sentiva orgoglioso di quello che faceva.”
“In altri casi è successa la stessa cosa. All’inizio il discorso era spesso del tipo ‘Non abbiamo nulla. Siamo dei rifugiati. Arriviamo qui nel campo, e non facciamo nulla.’ Poi, con il sostegno degli amici, delle persone che partecipavano agli incontri, le persone hanno cominciato a parlare più positivamente, e a pensare che possono portare un cambiamento nella società.”
Tutte le foto dalla pagina Facebook di Syrian Eyes.
Leggi le altre puntate del reportage:
• Bayslan, il teatro-rifugio del campo palestinese di Shatila
• Operazione Colomba e il futuro incerto dei rifugiati siriani a Tel Abbas
• “Costruire un teatro è come costruire una speranza”
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