“Costruire un teatro è come costruire una speranza”
Alla fine del nostro viaggio, Junaid Sarieddeen, co-fondatore del Zoukak Theater, ci spiega le potenzialità del teatro in contesti di estrema marginalizzazione.
Alla fine del nostro viaggio, Junaid Sarieddeen, co-fondatore del Zoukak Theater, ci spiega le potenzialità del teatro in contesti di estrema marginalizzazione.
*Questo articolo fa parte di Malja’a Lebanon, un reportage in quattro puntate su alcune esperienze di auto-organizzazione e attivismo tra i rifugiati in Libano. Puoi leggere le altre puntate della serie qui.
Torniamo, infine, al nostro incontro con Junaid Sarieddeen del Teatro Zoukak. Questa associazione si presenta in maniera abbastanza diversa dalle altre. Come il Teatro Forum Baylsan lavora con soggetti ai margini della società libanese appoggiandosi a tecniche teatrali; come Syrian Eyes è stato fondato da volontari locali; come Operazione Colomba non lavora tramite progetti “pre-confezionati” ma costruisce le proprie attività assieme alle persone con cui e per cui opera. In questo senso, è da rimarcare come Junaid Sarieddeen — co-fondatore del teatro — non si consideri un attivista e ci abbia chiesto di non presentarlo come tale. La storia di Zoukak che ci racconta, infatti, non è quella di un’associazione che nasce per scopi politici o per aiutare gente in difficoltà. Nata nel 2006, da un collettivo di sei persone, tutte libanesi, che avevano appena finito i loro studi di teatro, si trova suo malgrado in un paese improvvisamente in guerra. Il 2006 è infatti l’anno in cui il conflitto fra Hezbollah e Israele sfocia nell’invasione israeliana del Libano. “Tutto deve cominciare da te. Non è qualcosa che ha a che fare con l’aiutare la gente, ma col trovare il tuo posto, il tuo ruolo all’interno della crisi. Abbiamo capito che il nostro ruolo era il teatro, perché è la nostra attività, la nostra cultura ed è un qualcosa che era anch’essa a rischio.”
In questo senso le prime attività di Zoukak sono stati atelier e corsi di teatro nei luoghi in cui la gente si rifugiava durante i bombardamenti: scuole e altre grosse strutture. “Costruire un teatro è come costruire la speranza, soprattutto nel contesto di una guerra,” ci spiega, ma aggiunge poco dopo: “In quella situazione di continui bombardamenti, in cui senti che la tua vita può finire da un momento all’altro non è che sei senza speranza… Piuttosto ti senti impotente.”
Dopo la guerra con Israele, il teatro Zoukak ha continuato a esistere e a crescere. Tanti progetti e atelier sono stati realizzati negli anni, lavorando con soggetti diversi: dai rifugiati palestinesi a quelli siriani, fino ad altre comunità straniere o alle donne vittime di violenze domestiche. Esistono diverse forme di atelier, ma la base è quella di lavorare sugli individui e sul gruppo, che nel contesto diventa metafora della società. Attraverso esercizi, ripetizioni e improvvisazioni si cerca di dare la possibilità a ogni partecipante di esprimere quello che vuole esprimere. “Il momento dello spettacolo davanti un pubblico è il momento che consideriamo propriamente politico.”
Anche all’interno degli atelier sono emersi episodi di razzismo e intolleranza nei confronti dei rifugiati. “Ma vedete,” aggiunge Junaid, “Non possiamo imporre temi o argomenti. Non possiamo arrivare un giorno e dire oggi parliamo di questo problema, non è così che funziona, non è così che può funzionare. La magia del teatro, degli esercizi, delle ripetizioni, della messa in scena e del rappresentazione davanti al pubblico si gioca nella lentezza. Col tempo la gente inizia a prendere coscienza di sentimenti di cui non sospettava l’esistenza e a rivedere le cose da un altro punto di vista.”
“La magia del teatro, degli esercizi, delle ripetizioni, della messa in scena e del rappresentazione davanti al pubblico si gioca nella lentezza”
“I nostri gruppi sono misti, comprendono spesso rifugiati, libanesi, ma anche figli di stranieri immigrati qui per lavorare: africani, gente del Bangladesh. Ora, molti di questi ragazzi hanno visto orrori inimmaginabili con i loro occhi e in più tutto quello che viene detto dalla tv e dai media resta nella loro testa. Durante gli atelier tutti i conflitti della regione sono in qualche modo presenti in sala. Solo con la lentezza, con gli esercizi, i frame che creiamo, il lavoro collettivo tutto questo può essere affrontato.”
Seguendo le suggestioni di I once entered a garden, passiamo a parlare del conflitto tra l’intimo della vita di ognuno e le grandi tragedie storiche vissute contestualmente. Junaid ci spiega: “Questo livello emerge spesso, ovviamente. Noi, anche in questo caso, non forziamo che accada, ma non poniamo neanche limiti. Crediamo nella gente e crediamo che queste persone parleranno di quello di cui vogliono parlare, di quello di cui si sentono pronte a parlare in quel momento di fronte a quel pubblico. Per questo motivo, i nostri esercizi sono sempre strutturati in modo che chi li fa possa sia dar sfogo ai propri pensieri più intimi, sia restare più nel generale o nel vago. Spesso emergono storie personali davvero tragiche. Ma il lavorarci su, la ripetizione, la costruzione della scena con l’introduzione di espedienti narrativi, tutto questo permette alla fine a chi ha proposto questa storia di prenderne distanza. Anche questo è il potere terapeutico del teatro.”
Teaser dell’ultima produzione del teatro, The Jokers
“Quando andammo a lavorare la prima volta nei campi palestinesi restammo sorpresi. Tantissime organizzazioni internazionali avevano già lavorato o stavano lavorando lì con progetti simili ai nostri, ma il loro lavoro consisteva nell’aiutare le persone a liberarsi e svuotarsi dei propri sentimenti. Era come dire loro non essere arrabbiato, non essere nervoso. Esprimere se stessi era diventato sinonimo di svuotarsi dal proprio contenuto, dalla propria anima. Restammo a bocca aperta. Non si fa così, non puoi dire alla gente come si deve sentire, soprattutto se vive in condizioni simili. Non puoi mettere la gente in queste condizioni e chiedergli di non essere arrabbiato, di non sentirsi stressato. Anche quando siamo stati in Francia, a Calais, abbiamo incontrato tantissimi volontari che con tutte le migliori intenzioni del mondo facevano le scelte peggiori. Non puoi illudere questa gente, non puoi promettere quello che non puoi mantenere. Vi faccio un esempio: alcuni volontari lavoravano coi bambini e li abbracciavano, li coccolavano. Poi dopo due settimane questi bambini sperimentavano l’abbandono, senza poterne capire il motivo. E non è difficile che questi ragazzini proiettino questo abbandono al resto della società… E no, non sto esagerando. Erano volontari mossi dalle migliori intenzioni e dai migliori sentimenti, ma hanno rotto tutte le regole fondamentali del nostro lavoro, che si deve basare sull’autocontrollo”. Poi, vincendo un minimo di autocensura, Junaid aggiunge: “E ho visto negli anni anche cose peggiori come volontari ubriacarsi davanti ai rifugiati, molestarli e trattarli male… Ho visto episodi davvero raggelanti,” conclude Junaid.
“Non puoi illudere questa gente, non puoi promettere quello che non puoi mantenere.”
Anche quando sembra solo un artificio retorico evocato dai vari politicanti di turno, la violenza in Libano si scarica quotidianamente e senza pietà sulle persone messe ai margini della narrazione. Il lavoro di Zoukak, come anche quello del Teatro Forum Baylsan, usa la forma del teatro per ridare voce agli emarginati, cui normalmente il diritto alla parola è negato. Ma cosa succede quando il progetto teatrale finisce? Cosa resta dopo questa presa di parola? È la nostra ultima domanda a Junaid: “Non crediamo che il teatro possa cambiare le masse, ma può operare piccoli cambiamenti. Attraverso il lavoro con le persone, naturalmente, ma anche nel pubblico attraverso gli spettacoli. Capita, ad esempio, che dopo il lavoro col teatro la gente scopra le manifestazioni civili contro il governo; esistevano anche prima, loro le vedevano passare, ma non le vedevano davvero. Qualcosa cambia nella loro forma mentale. Spesso rompendo uno schema, anche uno schema teatrale, infrangendo una regola prestabilita, i ragazzi e le ragazze scoprono che le cose possono andare diversamente. Magari non capiscono tutta la pièce, tutti i passaggi, ma non importa. Coi bambini, ad esempio, va così: non puoi toccare il cambiamento, ma c’è e lo sappiamo, lo so, per esperienza personale. La prima volta che ho visto una rappresentazione, la prima volta che ho visto del teatro non classico e che una forma prestabilita è stata rotta, io ricordo bene cosa è successo nella mia testa. Ti apre a nuove dimensioni, ti permette di raggiungere nuove forme di identificazione della libertà. Scopri che le cose non devono per forza raccontarsi secondo le schema che ci hanno sempre insegnato, ma possono prendere forme diverse. Questa è la forza del teatro.”
E ci fa un esempio concreto: “Quando abbiamo lavorato con le donne vittime di violenze domestiche abbiamo chiamato lo spettacolo: È il momento di urlare. Perché? L’idea è venuta alle donne, noi non pensavamo affatto a un titolo del genere. Finita la preparazione dello spettacolo abbiamo semplicemente posto la domanda se volevano rappresentarlo. Alla risposta affermativa abbiamo convocato la stampa, altre associazioni, eccetera, e abbiamo chiesto alle donne come volevano essere presentate. Per tutto il tempo loro erano state le vittime di casi di violenza — questo diceva il progetto. Ma nel momento di lanciare lo spettacolo, dopo essersi riunite fra di loro, hanno deciso di definirsi attiviste per una nuova legge contro la violenza domestica. Qualcosa era cambiato: non più vittime, ma attiviste. Quindi era venuto il tempo di urlare. Questo è forse un esempio dei piccoli risultati del nostro lavoro.”
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Salutato Junaid ci scambiamo le nostre ultime considerazioni. Cosa resta di questo piccolo viaggio attraverso una parte del mondo associativo attivo in Libano? Resta sicuramente l’immagine della sproporzione fra le dimensioni del problema dei rifugiati e lo sforzo nazionale e internazionale per affrontarlo; resta la consapevolezza che il problema dei rifugiati siriani non può essere scisso dall’insieme di contraddizioni che vive il Paese.
Ma quelle che restano di più, forse, sono le parole critiche di Alessandro, Junaid e gli altri sul lavoro dei giornalisti e delle grandi organizzazioni internazionali, quelle legate all’Onu e quelle non governative. E, accanto alle parole, resta il lavoro di queste associazioni, la loro capacità di inserirsi nelle contraddizioni del mondo dell’aiuto umanitario attraverso pratiche orientate all’auto-organizzazione, che mirano a promuovere la coscienza politica e sociale delle persone con cui lavorano, invece che riproporre, magari inavvertitamente, le stesse disuguaglianze e le stesse logiche autoritarie che si dice di combattere. I loro modi di porsi, ben lontani dall’essere unitari o assimilabili l’uno all’altro, ci sembrano un monito per tutti noi che a vario titolo operiamo nel settore, un invito a ripensare le nostre pratiche di intervento.
In copertina: foto dal sito del Teatro Zoukak.
Leggi le altre puntate del reportage:
• Bayslan, il teatro-rifugio del campo palestinese di Shatila
• Operazione Colomba e il futuro incerto dei rifugiati siriani a Tel Abbas
• Come si risolvono i problemi concreti di un campo profughi: la storia di Syrian Eyes
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