Bayslan, il teatro-rifugio del campo palestinese di Shatila
Il teatro Bayslan, come il fiore da cui prende il nome, cresce in condizioni difficili: sotto terra, in un ex rifugio della guerra civile trasformato in uno spazio auto-organizzato e aperto a tutti.
Il teatro Bayslan, come il fiore da cui prende il nome, cresce in condizioni difficili: sotto terra, in un ex rifugio della guerra civile trasformato in uno spazio auto-organizzato e aperto a tutti.
*Questo articolo fa parte di Malja’a Lebanon, un reportage in quattro puntate su alcune esperienze di auto-organizzazione e attivismo tra i rifugiati in Libano. Puoi leggere le altre puntate della serie qui.
È il momento di tornare a quello che è stato l’inizio del nostro viaggio. Comincia a bordo di un taxi diretto al campo profughi di Shatila, dove dobbiamo incontrare Yasmine, co-fondatrice e volontaria del teatro Baylsan. Lo prendiamo in centro città. Il campo non è lontano, una quindicina di minuti — ‘aj’a permettendo, il leggendario traffico beirutino. Il tassista ci chiede dove dobbiamo arrivare esattamente. “Vicino alla Mezzaluna Rossa Palestinese,” rispondiamo. Sembra non riconoscere il posto, ma non dice nulla. Dopo pochi minuti, chiarisce: “Noi libanesi non andiamo mai nel campo palestinese. E i taxi non possono entrare. Guardate,” e indica uno stretto vicolo sulla destra. Dei bambini stanno giocando con quello che trovano nei cassonetti della spazzatura lì accanto. “Questo è il campo,” conclude sarcastico. Pochi chilometri, ma la distanza sociale sembra abissale.
Stabiliamo con Yasmine un punto d’incontro alternativo. Una volta a destinazione, la aspettiamo. “Ci spiace averti fatto venire fino a qua, non sapevamo fino a dove potessero arrivare i taxi.”
“Nessun problema,” ci risponde, “La prima volta qui?”
“Sì.”
“Paura?” chiede sorridendo.
“Il tassista, forse” rispondiamo ridendo.
Passiamo sotto un ponte. Oltre, si diramano le strette vie del campo, dove le macchine non possono entrare. Shatila è il campo, insieme a quello di Sabra, dove durante la guerra civile, nell’82, fu perpetrato un massacro di palestinesi da parte delle milizie falangiste con l’appoggio di Israele, in cui si stima furono uccisi tra i 762 e i 3500 civili. Qualche anno dopo fu in gran parte distrutto nella cosiddetta Guerra dei Campi, combattuta tra le milizie dell’OLP e quelle sciite di Amal.
Oggi in questo chilometro quadrato su cui si estende Shatila abitano ormai più di 30.000 abitanti, di tutte le nazionalità. Un numero che è sensibilmente aumentato negli ultimi anni anche per l’arrivo di siriani e siriani palestinesi. Su ogni metro edificabile si è costruito qualcosa. Così le case sono costrette a svilupparsi verso l’alto, per accogliere il numero sempre più alto di residenti. Yasmine ci guida fra i vicoli. Intrappolate tra i fili dell’elettricità, immagini di Yasser Arafat. A un certo punto, appare l’insegna del teatro Bayslan.
Baylsan, come ci spiega poi Nirmeen, sorella di Yasmine e anche lei volontaria nel teatro, in arabo è il nome di un fiore molto profumato che cresce in condizioni difficili.
Qui a Shatila, Baylsan cresce sottoterra: il teatro infatti è stato ricavato da uno spazio che durante la guerra civile era stato usato dalla popolazione come rifugio, per proteggersi dai bombardamenti e i combattimenti. Ancora oggi, ci spiega Yasmine, i più grandi hanno paura a scendere lì sotto, perché riaffiorano alla mente i ricordi e le sofferenze di quegli anni.
“L’idea è nata nel 2014. Volevamo creare uno spazio culturale all’interno del campo che fosse aperto a tutti e gratuito. A Shatila, tra le altre cose, c’è un problema di spazio. Non ci sono strutture per attività che richiedono certe dimensioni. Nostro padre era responsabile di questo rifugio, ormai in disuso, pieno di macerie. Perciò ci ha proposto di riutilizzarlo.”
Scendiamo le scale che conducono al teatro, fino a una grande sala. Sulla destra, appena entrati, c’è una stanza con una biblioteca e un tavolo, dove si fa lezione e si studia. Nella sala, sempre sulla destra, un piccolo palco. Poi il bagno e un angolo lettura. Sulla parete in fondo sono appesi una quindicina di quadri con citazioni di scrittori e artisti famosi, Kanafani, Darwish, Oscar Wilde, Gibran, pure Lady Gaga. L’ultimo quadro incornicia uno specchio, che sembra voler dire “Anche tu puoi creare qualcosa di bello.”
Circa una volta a settimana viene una professionista libanese ad animare l’atelier di teatro, a cui partecipano bambini di diverse nazionalità: palestinesi, libanesi, siriani, eccetera. Le tematiche affrontate sono le più disparate. Si lavora anche in collaborazione con altre associazioni e organizzazioni locali. Per esempio, a novembre 2017, con l’associazione Al Jana (Arab Resource Center for Popular Arts), che aveva messo in scena un teatro-forum — con la partecipazione attiva del giovane pubblico — sul tema delle discriminazioni tra gli arabi. Ma lo spazio di Baylsan è messo a disposizione anche per eventi che riguardano la storia del popolo palestinese e per tante altre attività: atelier di lettura, di giocoleria, di kung fu e di dabke, la danza tradizionale.
Yasmine ci invita a bere un caffè a casa sua, non lontana dal teatro. Qui incontriamo sua sorella Nirmeen e altri membri della famiglia, tutti coinvolti, in un modo o nell’altro, all’interno di questo progetto. Durante la conversazione, non mancano momenti in cui fioccano critiche. Non ce lo dicono chiaramente, ma probabilmente siamo gli ennesimi “occidentali” venuti a scrivere un articolo sulla situazione nel campo, con poco tempo a disposizione e l’arroganza che questo possa bastare a raccontare Shatila. Ancora una volta, si rinnova il gioco delle parti. “Perché proprio un teatro?” chiediamo. “Attraverso il teatro puoi affrontare molte tematiche, anche con leggerezza. È come una boccata d’aria fresca. Inoltre Baylsan è l’unico spazio nel suo genere qui a Shatila,” ci risponde Yasmine.
“L’idea era di mettere a disposizione un luogo dove le persone, i volontari, i bambini potessero esprimersi, coltivare passioni e talenti. Qui ci sono molte persone istruite che non possono sfruttare il loro diploma per lavorare. Quello che si cerca di fare è dare un po’ di speranza.”
In un certo senso, Baylsan sembra ancora un rifugio. Se le persone non scendono più qui per salvarsi dai bombardamenti, lo fanno oggi per coltivare lo spirito che, ancora, è costretto a crescere in condizioni estremamente complicate. Quello che ci colpisce particolarmente è come questo teatro nasca e si sviluppi grazie ad una vera e propria forma di autorganizzazione: una famiglia palestinese ha preso l’iniziativa e ha deciso di investire le proprie energie in un progetto all’interno del campo in cui vive, con l’obiettivo di mettere a disposizione della collettività uno spazio culturale, in un contesto dove il concetto stesso di spazio, compresso e oppresso dal peso della storia e della situazione attuale, assume un significato particolare. In questo senso, l’impressione che abbiamo è che il semplice atto di organizzare il teatro qui, in questo momento storico e da parte di questa gente sia una forma di presa di coscienza e un vero e proprio atto politico, nel senso più nobile del termine.
Qualche giorno dopo, il 3 maggio ci rechiamo al Redzone Festival, organizzato dall’associazione Zoukak. Arrivati in un edificio abbastanza nascosto, nei pressi della trafficatissima tangenziale di Beirut, ci sediamo e aspettiamo il nostro turno. Abbiamo prenotato una visita dell’installazione I once entered a garden degli artisti Bissane al Charif, Christèle Khodr e Waël Ali. Il tutto si condensa in un’unica sala adibita a stanza, con tre punti dove sedersi e ascoltare un racconto di fatti reali. Alcune donne, soprattutto, raccontano la propria scoperta dell’amore e del sesso. Sono storie dolci e delicate, che potrebbero sembrare banali, ma attraversano i periodi più turbolenti della regione, dalla guerra civile in Libano alla guerra in Iraq.
L’installazione ha il merito di svelare contemporaneamente la retorica e la verità di frasi come infanzia o gioventù “rubate”; espressioni che, peraltro, durante l’installazione/performance non vengono mai utilizzate. Ci si rende conto che la guerra non ha semplicemente attraversato la vita di queste persone, ma ha dato loro forma. Una delle signore protagoniste ricostruisce quando è avvenuta la sua prima volta usando come punto di riferimento il massacro di Sabra e Shatila: la guerra civile non le ha tolto la giovinezza, ma ha costruito il teatro entro cui questa ha potuto svolgersi.
In copertina: il campo di Shatila nel 2016 / foto CC Trocaire, Flickr
Leggi le altre puntate del reportage:
• Operazione Colomba e il futuro incerto dei rifugiati siriani a Tel Abbas
• Come si risolvono i problemi concreti di un campo profughi: la storia di Syrian Eyes
• “Costruire un teatro è come costruire una speranza”
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