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in copertina, foto via Twitter @MSF_Italia

“Quello di Medici senza frontiere è sicuramente un mandato umanitario, perché siamo medici. I nostri fondatori però erano medici e giornalisti: il nostro mandato è anche di testimoniare.”

Medici Senza Frontiere è una Organizzazione non governativa. MSF è una Ong, per dirla con le sigle. Nell’ultimo anno e mezzo, le Ong e i propri operatori sono passati da essere definiti angeli, eroi, esempi di responsabilità civile a amici degli scafisti, mafiosi, pirati. Medici Senza Frontiere è stata per lungo tempo una delle Ong più rispettate e prestigiose, operando prima che nel canale di Sicilia — in cui è attiva dal 2015 — in molti tra i luoghi più difficili del pianeta: teatri di guerra africani, luoghi di carestia asiatica, posti dimenticati dalla società e dal sistema economico.

Claudia Lodesani è presidente di MSF Italia dallo scorso 15 aprile. Ci ha parlato del tentativo degli stati europei di eliminare tutti i testimoni scomodi del massacro in corso nel Mare mediterraneo, della ritirata della guardia costiera italiana, e della necessità di ridare un nome ai morti.

Claudia Lodesani, foto dal blog di MSF Italia
Claudia Lodesani, foto dal blog di MSF Italia

Cominciamo dal vertice Ue degli scorsi giorni, che ha visto la conferma di uno slittamento sempre più a destra della politica europea.

Sicuramente è stato un vertice che in realtà ha portato a pochissimi cambiamenti. Queste politiche di, per così dire, erigere i muri sono state confermate, e sembra essere in atto un tentativo di spostare i confini ancora più a sud. Sono tentativi che sono già stati fatti in passato, sia da altri governi europei che italiani: in realtà non fermeranno il flusso di migranti. E comunque sono misure restrittive e non costruttive — non c’è nessuna visione di integrazione e tantomeno volontà di affrontare il problema nella sua globalità. Si cerca di chiudere un problema, non di affrontarlo, di fermarlo semplicemente più lontano da noi.

A riguardo, da molto tempo, da destra si sente spesso dire “aiutiamoli a casa loro.” Ma quest’espressione ha un senso, o è una frase vuota che maschera qualcos’altro?

Spesso ci sentiamo dire che soccorrere le persone in mare non sarebbe più il nostro lavoro, e che dovremmo aiutare le persone nei paesi da dove vengono. Ma noi lo facciamo già — dal 1971! — ed è il motivo per cui possiamo testimoniare che questa gente continuerà a spostarsi: perché nei loro paesi ci sono guerre, epidemie, e c’è il cambiamento climatico, anche, di cui non si parla mai. Ci sono siccità, carestie, aumento della tensione.

È un finto slogan – o meglio, è solo uno slogan. Aiutiamoli a casa loro? Benissimo! Noi, come ho detto, lo facciamo da tanto. Ma le migrazioni sono un problema che va affrontato in maniera globale e costruttiva e non è assolutamente quello di cui si sta parlando. Nella visione della destra non si parla di rivedere i meccanismi di geopolitica che causano e governano le migrazioni, ma semplicemente di costruire un muro e di lavarsi poi la coscienza — li aiutiamo là, così non vengono più qua. Ma fare davvero qualcosa per queste persone in quei paesi implica una riflessione molto più ampia che semplicemente non abbiamo mai sentito.

Semplicemente oggi si pongono le persone davanti a una scelta: rimanere in Libia — con tutto quello che ne consegue, torture, centri di detenzione, eccetera — oppure di morire in mare.

MSF in un centro per rifugiati in Chad, foto CC Mark Knobil
MSF in un centro per rifugiati in Chad, foto CC Mark Knobil

Si è sentito dire con toni trionfalistici da parte della destra che in questo momento non ci sono più Ong nel Canale di Sicilia.  

Quello di Medici senza frontiere è sicuramente un mandato umanitario, perché siamo medici. I nostri fondatori però erano medici e giornalisti: il nostro mandato è quindi anche di testimoniare. Possiamo testimoniare perché i migranti partono — lavoriamo in Nigeria, in Sudan. Lavoriamo in Libia, per cui sappiamo cosa vuol dire essere in Libia, e lavoriamo nel mare dal 2015. Probabilmente la volontà di non avere più delle istituzione indipendenti, come sono le Ong, come noi, Sea-Watch e tutte le altre… Forse c’è una volontà di non avere più testimoni.

Si è fatta arrivare la situazione a un punto in cui le realtà indipendenti, le Ong, non sono più in mare, e di fatto non lo è più nemmeno la guardia costiera italiana, perché è stata fatta retrocedere solo sulla fascia SAR, lasciando tutta la responsabilità alla guardia costiera libica, sapendo che non è in grado di gestirla. Il sospetto che vogliano eliminare tutti i testimoni scomodi è inevitabile — e di fatto ci stanno riuscendo.

Rischiamo di rimanere solo noi: ora abbiamo la nostra barca a Marsiglia, che tornerà in mare la settimana prossima — purtroppo è dovuta andare a Marsiglia perché Malta ci ha chiuso il porto, e adesso abbiamo un cambio tecnico da fare, anche per il team che è esausto, ma l’idea è di tornare al più presto. Da cinque o sei barche sommando quelle di tutte le Ong siamo passati in questo momento a una, ammesso che ci facciano tornare. Siamo davvero testimoni scomodi.

Avete sentito un diverso atteggiamento anche dal pubblico, in seguito alla crescente virulenza della politica?

Sicuramente sì — ma sia in positivo che in negativo. Questo atteggiamento di ostilità nei nostri confronti in realtà è iniziato già dallo scorso anno. Gli operatori umanitari sono passati da essere angeli con l’aureola ad essere la causa di tutti i mali. Questo cambiamento c’è stato, ed è quello che preoccupa di più. Ma è anche vero che dopo i fatti dell’Aquarius ci sono state più di 40 manifestazioni spontanee, della società civile in tutta Italia, e alcune autorità hanno manifestato un disaccordo con queste politiche. Sono vere entrambe le cose: è vero che c’è un demonizzarci, un atteggiamento di ostilità, ma è anche vero che abbiamo ricevuto, più che in passato, anche tanti atti di solidarietà — di cui siamo particolarmente grati, perché vedere le persone in piazza, spontaneamente, è stato bello.

Salvini ha detto che questi morti non sono colpa dell’Italia, ma allora di chi è, secondo voi? Oppure sono proprio dell’Italia?

Da come la vedo io, l’Italia è la punta dell’iceberg. C’è un vuoto della comunità europea, e c’è sempre stato, anche negli anni scorsi. Non è solo l’Italia — le migrazioni sono un discorso complesso, ma proprio per questo va affrontato in un modo complesso. Si sta parlando del soccorso in mare come se fosse l’unico momento della migrazione, o la cosa più importante. In realtà è solo un pezzo del mosaico.

Se si bloccheranno completamente le navi delle Ong la guardia costiera libica non sarà più sufficiente. La mortalità di quest’anno è aumentata nonostante siano drasticamente diminuiti gli sbarchi. Ricordiamoci che a causa delle politiche di Minniti gli sbarchi sono diminuiti tantissimo, perché la gente è bloccata in Libia. Ma la mortalità è aumentata, ovvero ci sono molti più morti in proporzione rispetto a chi si sposta. E questo è certamente dovuto alle politiche di non investimento nel soccorso e di chiusura sia a noi che comunque anche alla guardia costiera italiana, che comunque non si spinge più in acque internazionali. Possiamo non parlare di colpe ma di responsabilità sì.

Come valuta la scelta dei quotidiani italiani di pubblicare le foto dei bambini morti in mare? È troppo cruda o è necessaria?

Questo è un discorso molto complesso. In generale a noi non piace assolutamente far vedere i pazienti… Quello che è vero è che c’è un’indifferenza crescente a questi morti, e fa altrettanto male — pensi al caso del naufragio dell’altro ieri: sessantatre persone. Sono più di un pullman, che in un secondo muore. Bisogna anche far capire alla gente che cosa vuol dire cinquanta persone morte. Io ho lavorato in Yemen e durante il colpo di stato della Repubblica centrafricana, e io questi numeri di morti non li ho visti neanche con gli attacchi con i missili in Yemen. Sono numeri enormi, di una guerra, di un massacro.

Sulle immagini, se c’è un modo per far capire queste cose in un modo diverso, sono d’accordo che forse sono strumentalizzate — ma è anche vero che quella è la realtà: non è la questione del bambino, è che sono persone, e credo sia questo di cui la gente si dimentica. Sessantatre morti vogliono dire Mohammed, Yussuf… vuol dire persone. Forse dovremmo iniziare a dargli dei nomi, a queste persone.


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