Si tratta di una pratica antica, della polis ateniese e dei comuni italiani duecenteschi.
Ha fatto scalpore la proposta di Beppe Grillo, recentemente rilanciata, di riforma del Senato. Il padre del Movimento Cinque Stelle vorrebbe una Camera interamente estratta a sorte: «si selezionano le persone per categorie, titolo di studio, uomo o donna, età e si chiede se vuole gestire per un anno la sua nazione, o per andare all’opposizione e via».
Quella dell’estrazione è un vero tormento per Grillo, che da anni va predicando il suo progetto estremo (e decisamente opinabile). Opinabile, eccentrico, sconsiderato, innovativo, ma, come vedremo a breve, non folle, né storicamente infondato, per quanto il comico ne faccia risalire l’origine a questo secolo.
«Il suo nome tecnico – scrive sul suo blog — è sortition. Ma il suo nome comune è selezione casuale.. L’idea è molto semplice: selezioniamo le persone a sorte e le mettiamo in parlamento». Per la verità, l’estrazione a sorte dei rappresentanti della cittadinanza — il “sorteggio”, per usare una parola italiana più calzante — non è una pratica nuova, sicuramente non lo è in Italia, e certamente non è un’intuizione di Brett Hennig, direttore e co-fondatore della Sortition Foundation.
Si tratta di una pratica antica, tipica più che dei regimi democratici, dei regimi repubblicani delle città-Stato. La si trova nella polis ateniese, cui spesso Grillo ama riferirsi, ai tempi di Socrate, che fu estratto a sorte fra i cittadini nel 406 a.C. ed eletto così all’assemblea dei prìtani, incaricati di presiedere il Consiglio dei Cinquecento — per quanto l’oligarca Socrate, secondo varie fonti, non apprezzasse affatto l’istituto del sorteggio casuale. Ancor più il suo allievo Platone insiste sulla sofocrazia e sulla politica, secondo una nota metafora, simile al governo di una nave, che richiede esercizio e lunga preparazione, richiede conoscenza tecnica, e non è adatta a tutti. Una posizione inconciliabile con la “sortition” di Grillo.
Ma forse, rispetto alla polis, è più interessante per noi il caso dei comuni italiani, che già nel primo Duecento si dotarono di meccanismi di sorteggio molto sofisticati, affiancati da sistemi elettorali complessi, al fine di garantire alla città un governo quanto più rappresentativo e quanto meno corrotto possibile. L’enorme accelerazione economica e sociale del Basso Medioevo italiano impose lo studio di nuovi strumenti amministrativi, che consentissero l’accesso dei nuovi ceti in ascesa alle posizioni di comando. Senza avere a disposizione il modello della polis, l’alto grado di alfabetizzazione dei centri urbani e il dinamismo sociale condussero all’introduzione del caso e della casualità all’interno della pratica politica.
Le città-Stato italiane erano, anzitutto, realtà statuali, con una politica interna ed estera a cui badare, in un contesto per molti versi più complicato di quello attuale e sorprendentemente affine per altri. Ciò non impediva alle classi medie di insediare, anche grazie all’estrazione a sorte, cariche di alto livello e di responsabilità. Nello statuto di Reggio Emilia del 1242, ad esempio, si prevedeva che tutte le massime cariche cittadine fossero attribuite per sorteggio. L’effetto di tali scelte fu un’incredibile diffusione della “tecnica politica”, e del dominio del politico, oltre che un periodo di grande benessere — ma anche di altissima conflittualità.
Vero è che non si trattava di un “sorteggio universale: l’elettorato passivo era comunque ristretto, non aperto a tutta la popolazione. Esclusi erano i giovani e i bambini, i non cittadini, categorie e mestieri particolari, interdetti dal governo, e chiaramente le donne, e spesso la procedura prevedeva più passaggi di selezione e scrematura dei nomi. A prevalere era comunque il principio che a governare dovessero essere, in qualche modo, i migliori membri della comunità. E anche quello che chiameremmo l’elettorato attivo, cioè chi poteva votare, era spesso estremamente ridotto. Siamo ben lungi, insomma, dalla democrazia per come siamo abituati a intenderla. Ma siamo nel pieno della maturazione del “repubblicanesimo”, che ha il suo perno nella gestione diffusa del potere e, soprattutto, nei sistemi di check and balance.
Il sorteggio, infatti, doveva andare a minare le sacche di potere interno e impedire l’ascesa di una sola famiglia, o un solo gruppo sociale – era una garanzia contro la temuta “tirannide” cittadina, lo strapotere di uno e dei suoi interessi sui molti, la fine della libertà comunale.
La pratica si mantiene, ibridata in sistemi contorti di distribuzione del potere, nel Rinascimento, ad esempio nella Genova repubblicana di Andrea Doria, e nel Seicento viene inserita nell’utopica costituzione repubblicana di Oceana dell’inglese James Harrington. Ancora Montesquieu scriveva che “il suffragio per via della sorte è proprio per natura della democrazia; quello per via della scelta, dell’aristocrazia” — a dimostrazione del fatto che il sorteggio fosse ancora alla metà del Settecento meccanismo politico pienamente riconosciuto e ascritto alla tradizione democratica, corollario del principio di uguaglianza dei cittadini.
Ironicamente, a segnare la fine dell’istituto dell’estrazione a sorte saranno le grandi rivoluzioni del tardo Settecento: la Rivoluzione Americana e quella Francese, che hanno definitivamente imposto la democrazia elettiva come sistema politico dominante nel mondo. Nonostante ciò, però, l’estrazione sopravvive ancora, non senza difetti, nelle giurie popolari statunitensi ed europee, dunque nelle istituzioni giuridiche. Non ne rimane più traccia, però, nelle istituzioni legislative.
Per approfondire:
Sintomer, Il potere al popolo. Giurie cittadine, sorteggio e democrazia partecipativa, Edizioni Dedalo, 2009.
Cittadinanze medievali. Dinamiche di appartenenza a un corpo comunitario, a cura di S. Menzinger, Viella, 2017.