Siamo stati all’ospedale per uccelli vegetariani di Old Delhi

Nell’affollato quartiere di Old Delhi si trova il Bird Charity Hospital, una struttura jainista che cura ogni specie volatile in maniera totalmente gratuita ma soprattutto a base di una ferrea dieta vegetariana.

Siamo stati all’ospedale per uccelli vegetariani di Old Delhi

Foto di Vittoria Lorenzetti

Nell’affollato quartiere di Old Delhi, tra il caos delle macchine e la folla dei mercati, si trova il Bird Charity Hospital — una struttura jainista che dal 1929 cura ogni specie volatile proveniente da qualsiasi parte dell’India, in maniera totalmente gratuita ma soprattutto a base di una ferrea dieta vegetariana.

Io e Vittoria non siamo capitate in India per caso, o meglio, l’India per noi non è stato un viaggio normale, semplicemente perché non ne abbiamo sentito il bisogno in maniera normale.

Io, di origini pugliesi, ma nata e cresciuta a Milano, nei mesi prima della mia partenza avevo già radicata in me quella insoddisfazione che solo le grandi città ti portano (a volte) a vivere: ero insofferente, non mi sentivo adatta, non riuscivo ad esprimermi. Mi mancava scrivere, e non riuscivo a farlo, mi mancava incontrare delle storie autentiche, lontane da conversazioni e post approssimativi su Facebook. Mi mancava la verità.

Ho incontrato Vittoria, la mia compagna di viaggio, nel maggio del 2017, era la fotografa di un cliente che gestivo in un’agenzia pubblicitaria di Milano. Per 4 giorni, ci siamo ritrovate a lavorare immerse nel verde del canavese, nel silenzio e nella pace di un posto calmo e bello che ci ha fatto compagnia mentre parlavamo per ore, sviscerando l’insoddisfazione, interrogandoci sul concetto di coraggio. Io, in quel momento, di coraggio non ne avevo. Ero molto cosciente del fatto che mi facessi trasportare dagli eventi e, fondamentalmente, li accettavo. Dopo quella parentesi, con Vittoria abbiamo continuato a sentirci e a vederci, finché qualche mese dopo mi dice che sarebbe andata in India per fare dei reportage fotografici. Quando me l’ha detto eravamo in macchina, a Novara, e c’era un sole pazzesco per essere ottobre. Si è girata verso di me, ci siamo guardate e ci siamo messe a ridere. In silenzio avevamo deciso di partire insieme. Ho impiegato qualche giorno per cambiare tutto e, tre mesi dopo, eravamo su un volo per Delhi — prima tappa di quella che è stata l’esperienza più complessa e incredibile delle nostre vite.

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Quando abbiamo scoperto il Bird Charity Hospital eravamo state nell’immenso e fatiscente mercato di Old Delhi già tre volte. Bisogna andare più volte a Chandni Chowk perché le sensazioni, quello che vedi, quello che cerchi di captare e quello che interiorizzi è ogni volta profondamente diverso, ed è in grado di cambiare completamente le sensazioni e la percezione che hai della città — quindi è giusto darsi del tempo.

Durante quell’ultima volta eravamo su un tuc-tuc, tra i rumori continui e assordanti degli autowala che non conoscono calma, né precedenze, e non hanno alcuna intenzione di smetterla di suonare il clacson. Erano le due di un mercoledì di fine gennaio: il caldo ci creava degli scompensi non indifferenti, Delhi ci aveva già regalato 10 giorni di suoni a cui è impossibile abituarsi, a quotidiani mal di testa difficili da gestire e noi avevamo già più e più volte dovuto far crollare tutte le abitudini per ricostruire tutto, di nuovo, in quella parte di mondo che è una buriana senza fine, un gigantesco maremoto sonoro.

Si è girata verso di me, ci siamo guardate e ci siamo messe a ridere. In silenzio avevamo deciso di partire insieme.

Può sembrare un’esagerazione, ma basta pensare che in India ci sono 1,3 miliardi di persone, di cui 19 milioni solo a Delhi e, con molta probabilità, la metà di queste sono a Chandni Chowk. Tra banchi di spezie, sari, gioielli, elettrodomestici, pesce, pollo, frutta secca e urla, urla, urla, sulla strada del mercato si ergono diversi templi, che portano qui induisti, cristiani, islamici, ebraici, sikh, buddisti e jainisti. Tra questi c’è lo Sri Digambar Jain Lal Mandir, un tempio jainista molto bello, di un rosso vivo, che si scaglia contro il cielo bianco della città, ovattato dall’inquinamento sonoro e delle macchine. Conosciuto dagli indiani come il Red Temple, lo Sri Digambar Jain Lal Mandir è il tempio jainista più antico della capitale, costruito nel 1658. È qui, all’interno di questo tempio, che sorge il Bird Charity Hospital: l’ospedale per uccelli vegetariani di Delhi.

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Scoprirlo ci ha stupite. Un ospedale per uccelli? Vegetariani? Nel caos senza fine della vecchia Delhi, perché?

Si tratta di una struttura jainista che, dal 1929, cura ogni specie volatile proveniente da qualsiasi parte dell’India, in maniera totalmente gratuita, salvando la vita di canarini, galli, polli, pavoni, piccioni e non solo, gestendo le emergenze nel giro di 24 ore.

Entrare non è stato facile: sono ammessi volontari nel Bird Charity Hospital, ma non fotografi né giornalisti. Dopo aver cercato per mezz’ora il responsabile della struttura e dopo averlo convinto della nostra buona fede, dopo aver aspettato sotto il sole una risposta, ci hanno finalmente accolte. All’ingresso di quelle che sono le varie “stanze” (ovvero della grandi gabbie per uccelli dalla stazza importante e gabbie più piccole per gli uccellini) c’è un grande cartello con scritto che “tutti gli uccelli dovrebbero essere sani e liberi da qualsiasi malattia, e dovrebbero volare liberi nel cielo.” Un pensiero strettamente collegato a quella che è la religione jainista, che pratica quotidianamente la non-violenza e considera qualsiasi creatura animale e vegetale sacra e che, quindi, merita rispetto.

All’interno dell’ospedale ci sono 5,000 uccelli. Vengono accolte qui tutte le specie, con le più disparate malattie, da quelle batteriche a quelle fungine, passando per quelle virali e arrivando a quelle protozoarie, che portano a cecità, paralisi, perdita di peso e, nei casi più gravi, morte. Una volta che l’uccello arriva qui, inizia tutto l’iter di cura: nei primi 7 giorni vengono curati con specifici medicinali e, una volta fuori pericolo, vengono spostati in un’altra ala della struttura, per lasciare spazio ai nuovi arrivati. Purtroppo non tutti gli uccelli riescono a sopravvivere. In una settimana, in media, ne muoiono dai 3 ai 5. Per coloro che non ce la fanno è prevista la sepoltura in una zona dedicata, accompagnata dalla namah jainista, ovvero “l’inchino, il saluto.”

Gli uccelli, una volta guariti, non vengono restituiti ai proprietari che li hanno portati lì, ma vengono liberati sul terrazzo dell’ospedale, ogni sabato.

Parliamo di uccelli vegetariani per due motivi: il primo è che all’interno dell’ospedale non vengono accettati né curati i predatori (quindi gli uccelli che mangiano altri uccelli), ma solo coloro che per natura si cibano di cereali. Il secondo motivo è che anche all’interno dell’ospedale questi uccelli seguono una dieta vegetariana, mangiando solo ed esclusivamente mais, ceci, miglio, fagioli mung, grano, sorgo, semi di senape e cereali integrali in generale, seguendo quella che è l’alimentazione jainista.

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Per capire bene lo spirito del Bird Charity Hospital dobbiamo parlare del jainismo e dei seguaci di questa religione, che sono lo 0,41% di tutta l’India, secondo l’ultimo censimento del 2001. Nella vita, i jainisti, hanno un solo obiettivo: quello di rendere libera l’anima, svincolandola da ogni materia, così da eliminare il samsara, il ciclo delle esistenze. Nelle religioni indiane del Brahmanesimo, del Buddismo, del Jainismo e dell’Induismo, infatti, c’è la credenza che ogni “corpo fisico” del Regno Umano sia abitato da una coscienza che vaga, ad ogni morte, di corpo in corpo, per un totale di 3,000 cicli composto ciascuno da 108 vite.

L’obiettivo della coscienza è l’autorealizzazione, il raggiungimento dello scopo, che è l’illuminazione, la vera espressione del sé al 100%. Vi sembra facile? Non lo è affatto: basti pensare che ognuno di noi, in una vita normale, riesce ad esprimere la propria coscienza al 3%. Tutto quello che di giusto o di sbagliato facciamo in questa vita, quindi, lo rincontreremo sotto forma di karma o di dharma nella vita successiva e, a seconda del “giusto o sbagliato” rinasceremo sotto forma di umani, o di animali, o di vegetali o di minerali. Se anche in questo ultimo ciclo del samsara non avremmo raggiunto l’obiettivo ci disperderemo, non potremmo più esistere. Il nostro tempo sarà finito.

Per evitare tutto questo vagare da un corpo all’altro (che per loro significa dolore, sofferenza senza fine) i jainisti vivono la loro vita rinunciando, perseguendo l’ascesi, mortificando il corpo e praticando non-violenza nei confronti di qualsiasi creatura, elemento e fenomeno animato.

Le loro pratiche religiose sono rigidissime, così come è rigida la loro alimentazione. L’esistenza basata sulla non violenza, non può però essere totalmente assoluta, perché sebbene l’atto del mangiare potrebbe essere considerato una violenza nei confronti del cibo, non farlo significherebbe essere violenti nei confronti del proprio corpo. Quindi sì, i jainisti mangiano, ma non mangiano animali, né vegetali, perchè mangiare una patata per loro significherebbe ucciderne la pianta. E i jainisti non uccidono, per questo respirano con un panno davanti alla bocca, per evitare che qualsiasi tipo di insetto, anche il più piccolo, possa accidentalmente andar contro al suicidio non premeditato.

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Tornando al Bird Charity Hospital non nascondo che, quando ho scoperto di questi uccelli vegetariani e della loro dieta ferrea per guarire, ho fatto fatica a trattenere una risata. Girando l’India e credere in questa maniera così profonda, così reale, così devota, mi ha fatto però rivalutare la scelta, trovandola una cosa serissima. Fin da subito, entrando nell’ospedale per uccelli vegetariani e parlando con il dottore jainista, ho toccato con mano quella devozione e quella cura profonda e capito che è solo una piccolissima parte di quello che fanno i jainisti.

Non mi sento però di escludere tutte le persone che invece abbracciano le altre religioni indiane e, in generale, il modo che hanno di comportarsi nei confronti dell’altro, soprattutto dell’altro che arriva da così lontano: li ho visti inginocchiarsi, piangere, guardare le mucche negli occhi a mani giunte, aprirci le porte delle loro case e offrirci tutto quello che avevano a disposizione. Li ho visti vergognarsi perché non avevano il “riso buono per gli ospiti,” e poi li ho visti sorriderci semplicemente perché avevamo fatto tanta strada ed eravamo capitate lì, con loro.

È una costante, quella della gentilezza, in India, così come quella del rispetto e del credere in qualcosa. Tutto, in India, è infatti plasmato dal credo (dai templi nelle strade agli altari in ogni casa dedicati ai guru) e nonostante debbano convivere sette religioni differenti riescono a farlo in un equilibrio invidiabile che purtroppo, per molti di noi, sarebbe complicato non solo da accettare, ma addirittura da comprendere.


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