Calenda ha deciso di affidare al Foglio il proprio “manifesto” progressista: è l’ennesimo tentativo di dirottare il voto di centrosinistra verso un contenitore centrista e liberista.
Questa mattina è uscito sul Foglio (!) un manifesto politico del nuovo progressismo italiano (!!) firmato da Carlo Calenda (!!!).
Quello che inizia con i presupposti di un episodio crossover finisce, forse per fortuna, in quella che assomiglia di piú a una Rifondazione Democristiana che a una via d’uscita per il centrosinistra italiano — che al momento, ricordiamo, è ancora ostaggio della leadership del Partito democratico. Per fortuna, perché se il centrosinistra italiano ricomincia dal Foglio forse bisogna farsi qualche domanda sugli slittamenti ideologici.
Il testo di Calenda, non mal scritto e non privo di spunti che avrebbero potuto portare ad analisi corrette, manca di qualsiasi forma di inquadramento politico perché lo si possa definire di centrosinistra. È un testo che definisce che aspetto dovrebbe avere un liberismo “dal volto umano.” Ma cade in svariati non sequitur pericolosi se abbracciati dal centrosinistra, perché frutto di completa mancanza di autocritica su argomenti in cui è lasciato campo aperto alla presunta destra sociale.
Nel proprio manifesto Calenda riassume brevemente — ma non troppo — “cinque punti” base per questo nuovo autoproclamato Fronte repubblicano. Responsabilità fiscale, garantendo la “sicurezza” dei conti, fedeltà all’Unione Europea e alla NATO, assistenzialismo per quelli che chiama gli “sconfitti dalla globalizzazione,” investimenti per l’innovazione; riformare l’Ue per aumentare le tutele sociali. Insomma, le differenze con il programma del Partito democratico per le scorse elezioni vanno proprio cercate con la lente di ingrandimento.
Sul lavoro Calenda non è in grado di dire niente che non avrebbe potuto dire il Pd di Renzi.
La lotta all’evasione fiscale è come al solito il meccanismo indicato per la diminuzione delle tasse, “partendo da quelle sul lavoro” appunto. Quando arriva il momento di ragionare su come si creino, sviluppino, difendano i posti di lavoro in questo momento difficile, Calenda preferisce rifugiarsi in schemi onirici, producendosi in scenari da futurista e tranquillizzando il lettore: “L’aumento della produttività e la diminuzione dei posti di lavoro non si distribuiranno in modo omogeneo nei diversi settori. Le nuove professioni che si svilupperanno con l’innovazione saranno in grado di coprire i posti di lavoro perduti solo se politiche pubbliche adeguate verranno messe immediatamente in campo.”
Non importa se la produzione industriale italiana è così impaludata che parlare della minaccia dell’automazione sia un discorso completamente surreale — e non importa nemmeno se gran parte dei posti di lavoro creati dall’innovazione in Italia hanno finora prodotto altro sfruttamento, tra rider e stagisti mai pagati.
Ci sono concessioni alle mancanze reali del paese. Rassicura vedere che qualcuno nel centrosinistra si ricorda che l’Italia è uno degli ultimi paesi sviluppati senza nessuna norma sul salario minimo garantito, e si parla perfino di reddito di inclusione — un argomento che tutt’ora non si capisce perché il Partito democratico abbia deciso di lasciare così completamente disarmato e preda delle altre forze politiche.
Completamente assente all’appello, e fondamentale per un vero manifesto del ritorno degli argomenti del centrosinistra, è uno straccio di piano industriale, un discorso di qualsiasi tipo sulla sicurezza sul lavoro, sulla sicurezza salariale, sulla sicurezza di poter costruire un futuro facendo un mestiere.
Anzi, fermiamoci un attimo su queste due parole: “diritto” e “sicurezza.” Perché se vogliamo accettare che i progressisti abbiano smesso di fare veri discorsi sul lavoro, sul significato di due concetti possiamo capire molto su come inquadrare il testo di Calenda.
Nel manifesto, la parola “diritto” appare soltanto due volte per definire qualcosa che del diritto non ha nemmeno l’ombra. Il termine viene chiamato in causa per definire il “diritto alla paura” che piú volte ha agitato lo scorso ministro dell’Interno Minniti per giustificare i suoi exploit respressivi: si parla una volta della “esclusione del diritto alla paura dei cittadini e l’abbandono di ogni rappresentanza di chi quella paura la prova” e un’altra si dice che “occorre affermare con forza che la paura ha diritto di cittadinanza. E rifondare su questo principio l’idea che compito della politica è rappresentare, anche e soprattutto, le attuali insicurezze dei cittadini.”
Detto semplicemente: queste sono parole, concetti, incompatibili con la sinistra, e proprie del linguaggio e della cultura della destra.
E non vuol dire che l’alternativa sia l’ottimismo cieco e insopportabile di Matteo Renzi, che di sinistra non è. Semplicemente, è errato leggere nel disagio dei piú deboli un “diritto alla paura.” Quello di cui hanno bisogno i deboli e gli indifesi non è ulteriore manipolazione: serve difenderli, che vuol dire accettare l’idea che qualsiasi piano economico non può essere pensato per il bene di tutti, ma per il bene dei molti. Accettare che l’insicurezza sia una leva fondamentale della politica vuol dire inevitabilmente accettare che ogni meccanismo che la mantenga e la fomenti sia uno strumento necessario della politica stessa: ma questo è un modo di pensare di destra.
E infatti, ad esempio, le politiche migratorie repressive di Minniti piacciono molto a Calenda, che a riguardo scrive seccamente:
“Sotto il profilo della gestione dei flussi migratori proseguire il “piano Minniti” per fermare gli sbarchi. Accelerare il lavoro sugli accordi di riammissione e gestione dei migranti nei paesi di transito e origine secondo lo schema del ‘Migration Compact’ proposto dall’Italia alla Ue.”
Meno male che bisognava essere progressisti. Altre parole–concetto interessanti, chiudendo questa sezione? “Welfare,” “ospedali,” “sanità,” “istruzione,” “scuola.” Tutte queste parole sono assenti dal manifesto con l’eccezione di una sola, singola menzione per scuola, elencata insieme a università e ricerca tra le “infrastrutture immateriali” su cui bisogna investire. Meno male che non ce ne siamo dimenticati.
Ma allora, a cosa serve questo manifesto? Cosa c’è di nuovo, di propositivo, di esplosivo in questo testo? Che cosa dobbiamo leggerci oltre alla voglia di proseguire dritti con le poche politiche vuote e centriste del Partito democratico, solo con Calenda al posto di Gentiloni, Minniti o (gasp) Renzi? Per carità,nel meccanismo con cui funzionano tutti i partiti occidentali contemporanei c’è una parte importante di culto della personalità — e gli elettori da anni premiano esclusivamente il migliore attore e non il miglior politico, e chissà, magari Calenda avrà successo con il pubblico. Ma cerchiamo di non confondere l’ennesimo tentativo di dirottare il voto di centrosinistra verso un contenitore centrista e liberista con una proposta nuova di sinistra.
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