Essere siciliani oggi, secondo l’Atlante Umano di Francesco Faraci

Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi.

Essere siciliani oggi, secondo l’Atlante Umano di Francesco Faraci

Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.

In queste settimane la Sicilia, e in particolare Palermo, sono ricche di eventi culturali ed artistici. Questa chiacchierata è nata un mese fa, quando Francesco mi aveva proposto il suo nuovo lavoro: Atlante Umano Siciliano, un viaggio per la Sicilia intera alla scoperta della sua stessa terra, e soprattutto delle persone che la abitano. Atlante Umano Siciliano viene presentato come un corpus unico di persone e forse sentimenti — che legano gli isolani. La sensazione di appartenenza e frustrazione da parte di chi abita questa terra da una parte e dall’altra il fascino e l’intolleranza per chi vive altrove sono gli ingredienti che rendono la Sicilia unica.

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Cosa significa essere siciliano oggi?

Essere siciliano oggi significa, più che mai, tenere gli occhi aperti e i sensi bene allerta. Significa vivere in un avamposto, avere a che fare con il concetto di confine, di limite. Per i migranti che arrivano dalla Libia coi barconi scorgere le coste della Sicilia è una specie di miracolo, dopo essere scampati alle insidie del mare per loro è come nascere una seconda volta. E questo lo trovo molto bello.
Essere siciliano oggi, e lo dico senza un filo di vittimismo, vuol dire faticare un po’ di più. Ci portiamo dietro una specie di marchio, dei pregiudizi, e sfatarli non è semplice, occorre acquisire quella necessaria credibilità che fa sì che il tuo lavoro non venga sempre e solo travisato. È un processo lungo ma eccitante, perché nel frattempo riesci a vedere le cose in una prospettiva diversa, come se i comportamenti degli uomini apparissero più chiari, nel bene e nel male.
Da qui poi, sento scorrere il tempo, sento le stagioni, ho imparato ad apprezzare la luce e il buio. È una scuola di vita, perché la Sicilia è una terra che sa ancora parlare ad orecchie che hanno voglia di ascoltare.

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Sul tuo profilo Facebook, molto seguito, pubblichi le fotografie indicando “Da qualche parte in Sicilia.” Sembra una sorta di motto.

“Da qualche parte in Sicilia” è nato per gioco. Quando ho cominciato questo nuovo progetto, a viaggiare per la mia terra, certe volte mi sono trovato in situazioni in cui il tempo si annullava, se ne stava sospeso lì, da qualche parte. Non avevo voglia di elencare per filo e per segno luoghi e situazioni ed è venuta fuori questa breve frase, che col tempo ho capito che restituiva il senso del camminare, dell’andare. Ciò che veramente importa, alla fine, è il viaggio in sé.

Ho letto il tuo libro, Nella pelle sbagliata. A differenza delle tue fotografie, naturalmente, personaggi e ambientazioni sono ben definiti. Come mai un libro e perchè a Catania e non Palermo, tua città d’origine?

Io sono nato e cresciuto a Palermo, ma nelle mie vene scorre il sangue di un’isola intera. Mi piace dire di me non solo d’essere siciliano ma Mediterraneo. Siamo in fondo il prodotto di tutte le dominazioni che nei secoli abbiamo avuto, siamo arabi, spagnoli, francesi e da ognuno di questi popoli abbiamo imparato qualcosa. Passo molto tempo a Catania, è una città che amo molto e la storia che ho raccontato nel romanzo viene da lì, ambientarla in un’altra città non gli avrebbe reso giustizia.
Ho giusto appena finito di scrivere una storia ambientata tra Palermo e Marsiglia che verrà fuori più in là. Questo per dire che rivendico il mio non essere una cosa sola, ma tante parti di un tutto: il Mediterraneo.

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Come decidi se una cosa è meglio raccontarla o fotografarla?

Non decido: succede da sé. Non mi metto mai su un tavolo a pianificare le cose. Oggi scrivo questo, domani vorrei fare questa foto. Non fa parte di me. E sono pure contento che sia un processo naturale e imprevedibile. I romanzi, come le fotografie, sono l’intuizione di un istante. Tocca essere attenti, avere un po’ di disciplina per saperli cogliere al volo e farne materia. Le parole, come le fotografie, passato quell’istante di cui ti parlavo, si perdono e non è detto che tornino. È necessario essere aperti, vivere senza guardare mai le cose dall’alto in basso, con superiorità. Io non sono niente, sto al mondo e cerco di non prendermi mai troppo sul serio. Le cose accadono, ed è meraviglioso, e questo accadere mi piace celebrarlo, come viene.

Parliamo delle tue fotografie. Dopo Malacarne, libro che ha avuto un ottimo successo, hai intrapreso questo nuovo viaggio per la Sicilia intera, cercando di raccontare tutte le persone che abitano questa terra. Qual è il filo che unisce queste persone?

Malacarne mi ha prosciugato. Dopo tre anni passati a stretto contatto con quei ragazzini mi sono sentito orfano. Pensavo d’averla chiusa lì e sono finito in un buco nero. Mettermi in viaggio è stato il colpo di reni per uscire da quel buco. Ho sentito il bisogno di incontrare le persone, di scambiare con loro qualcosa, qualunque cosa fosse. Ho sentito il richiamo della terra, un forte istinto a perdermi, convinto che solo così potessi ritrovarmi. Ho voluto, e voglio ancora, essere nudo, senza filtri, andare e fermarmi solo quando la stanchezza si fa troppa. Ho chiamato questo progetto “Atlante Umano Siciliano” proprio perché col tempo è questo che s’è venuto a creare: un atlante. Puoi così fargli fare un giro e poi stopparlo di colpo col dito. Ho scoperto una piccola America, il cui filo conduttore è il concetto di frontiera, di quell’avamposto di cui parlavo all’inizio. Un altro tempo, un diverso modo di vivere. La lentezza anteposta ai ritmi odierni. Prendersi lo spazio della riflessione. L’esilio anche, molte fotografie di questo progetto hanno come sfondo il mare, visto come limite ma anche come promessa e fonte di energia. C’è un altrove e più in là sarà bello cercarlo, scoprirlo. I fili che uniscono sono più di uno. Come vedi, più di quelli che disuniscono.

La Sicilia è la terra di Ferdinando Scianna e di Letizia Battaglia. Come fotografo impegnato nel raccontare la propria terra, cosa significa per te potersi riferire a questi due grandi nomi?

Significa sbatterci contro, farci i conti, volente o nolente. Ho la fortuna di conoscerli entrambi e da ognuno di loro ho potuto imparare qualcosa. Hanno fatto cose forse irripetibili e io non mi sognerei mai di accostarmici. Ho cercato la mia strada, il mio linguaggio, raccontare le cose a modo mio, secondo il mio sentire. Poi forse i paragoni sono inevitabili e sento dire spesso “sei l’erede dell’uno o dell’altro” ma ogni volta tremo, mi vengono i brividi perché non esiste, io sono piccolo, loro enormi e va bene così. A ciascuno il suo.

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Palermo quest’anno è ricca di eventi e importanti manifestazioni che l’hanno portata al centro dell’attenzione. Hai curato la campagna per Palermo Capitale della Cultura. Cosa ne pensi di questo recente intensificarsi di attività culturali?

Non posso che pensarne tutto il bene possibile. Era ora che ciò avvenisse, quindi evviva!
Palermo Capitale, Manifesta 12, proprio in questi giorni la città è bellissima, piena com’è di gente e di luce. Ovunque c’è qualcosa da vedere. Si sentiva da qualche tempo che qualcosa si stava muovendo, c’era una bella energia nell’aria e tanta voglia di scrollarsi dalle spalle anni e anni di decadenza. Spero sia solo l’inizio, bisogna mantenere la barra dritta in questa direzione.

Cosa auguri per te e per la tua terra?

Per me auguro di non diventare mai così tanto adulto da perdere la capacità di stupirmi e di giocare con la vita. Ho voglia di raccontare, ho voglia di andare in giro a prendere delle foto, abbracciare le persone. Mi auguro di continuare a cercare qualcosa che forse non troverò mai.

La terra non ha colpa, siamo noi, uomini e donne che la abitano a dover cambiare mentalità. Essere più consapevoli, meno cattivi, meno cinici. C’è troppa rabbia che però non si trasforma in qualcosa di bello, resta rabbia e può essere velenosa, deleteria. L’augurio è proprio questo: che la rabbia si trasformi in energia positiva, in buone vibrazioni.


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Francesco Faraci, fotografo e scrittore, nasce a Palermo nel 1983. Dopo gli studi umanistici pone al centro della sua produzione la sua terra, la Sicilia e il Mediterraneo. Diversi suoi reportage sono stati pubblicati su riviste nazionali ed estere (Il Venerdì di Repubblica, La Repubblica, Il Manifesto, Time Magazine, Globe and Mail, The Guardian, VICE, Erodoto108).  Nel 2016 il suo progetto fotografico sui bambini che vivono nelle periferie palermitane, “Malacarne”, è diventato un photobook curato da Benedetta Donato ed edito da Crowdbooks. Nel 2017 è uscito in libreria il suo primo romanzo “Nella pelle sbagliata” edito da Leima Edizioni.